Ecatombe- Diario di una giornata in redzione 24 settembre 2008

Ecatombe. In altro modo non si può definire. Dopo aver fatto fuori il direttore precedente in un colpo solo, il brillante neo direttore di una testata sottoposta alla mc donaldizzaione culturale (o se vogliamo sarebbe più giusto dire il lacchè, visto che i licenziamenti li fanno in realtà gli amministratori delegati e i loro capi del personale), ha fatto carambola liceniando anche il vicedirettore.
Ora a noi di questa storia potrebbe non importare assolutamente nulla.  I vicedirettori si comportano sempre in modi molto border line. Ed è davvero difficile alcune volte considerarli colleghi. Ma invece lo sono (e questo rende ancora più difficile capire perchè spesso stanno dall’altra parte). Risultato, a differenza dei direttori, non sono dirigenti, ma sottoposti pure loro. Dunque non possono essere licenziati. Se questo fosse possibile, domani potrebbero essere licenziati anche altri. Altri che, come in questo caso, si potrebbero veder recapitare una lettera falsamente gentile che recita più o meno così: gentile signore, poichè la sua posizione è stata soppressa e non abbiamo altri ruoli paragonabili da offrirle, voglia considerare fin d’ora interrotto il suo rapporto di lavoro….
La sua posizione di lavoro è stata soppressa è una frase orribile. Perché viene il sospetto che sia un errore di stmpa. In realtà volevano proprio scrivere lei è stato soppresso.
Ma com’è possibile che un licenziamento fuori da ogni regole (contratto, di lavoro, statuto dei lavoratori….) venga lo stesso effettuato? Semplice. Gli editori stanno provando ad alzare il tiro sempre più in alto, per vedere cosa raccolgono. Visto che si trattava di un vicedirettore, le redazioni avrebbero potuto benissimo dimostrare indifferenza, e la cosa sarebbe passata più o meno nel silenzio. Certo: avrebbero avuto una causa dal lavoratore in questione. Ma si sarebbero concordati sui soldi e morta lì. Nel frattempo avrebbero però ottenuto una cosa: la gente avrebbe imparato che nulla è certo, nulla è per sempre. Tanto meno il posto di lavoro con contratto indeterminato e non licenziabile. Non credo che arriveranno davvero a licenziare molti altri (incrocino le dita tutti i dipendenti della casa editrice in questione). Credo invece che in questo modo si ottenga con una piccola bomba l’effetto di far stare zitte e buone le persone. Tutti noi abbiamo da qualche parte un sentimento da schiavi.  E queste deflagrazioni vengono concepite apposta per farlo saltare fuori, bello vivace. La vittima sacrificale, anche se venisse imposta la sua reintegrazione, non tornerebbe comunque. Diventerebbe semplicemente un utile fantasma, da sventolare quando ce n’è bisogno. 

 

 

 

 

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Eresie – Diario di una giornata in redazione 23 settembre 2008

Il negozio di fiori che cercava esperti in arte
funeraria mi ha chiamato questa mattina. Il colloquio è fissato per domani.
Evidentemente tutto quello che ho scritto nella mail, la pura verità di quel che
sono e di quel che desidero, ha colpito il fiorista. E a questo punto sono molto
curiosa di vedere se ne può nascere qualcosa. Ma in questi giorni c’è
elettricità. Tutti i contatti che avevo preso, in un momento si sono
materializzati. Tanto da aver paura di non riuscire a ricordare tutti gli
appuntamenti e le mail da rimandare, con proposte e conferme. Ma devo restare
calma. Sappiamo bene che le danze possono finire in un istante. E si resta
sempre quelli senza sedia, ovvero fuori dal gioco, anche se la musica sembrava
promettere il divertimento più pazzo.
Per ora cerco di fare quello che devo
fare. Ovvero quasi nulla. Tranne ascoltare le lamentele di turno. E tenere a
bada la fissità dei colleghi su certi temi. per esempio ho scoperto che non si
può affrontare un delegato sindacale e dire chiaro e tondo che non ha capito
nulla di quello che accade. Che chiudere gli occhi non ha senso. Che non
pretendere i propri diritti crea precedenti pericolosi. Non si può, viene detto,
perché quando bisogna afftonare il nemico (l’editore), bisogna essere compatti e
non mostrare inimicizie. Sarà. Ma in questo modo il comportamento discutibile
può andare avanti per anni. perché il conflitto non si ferma mai, anzi, diventa
sempre più duro. L’ultima rivista che è uscita, un patinato maschile pieno zeppo
di pubblicità, viene fatto da uno staff redazionale ridotto ai minimi termini. E
una marea di collaboratori esterni. Eppure l’editore è uno dei più grandi e
solidi in Italia. UN precedente pericoloso? Non più di tanto. Di esempi come
questo ce ne sono a centinaia. E in fondo, a me che sono eretica viene da
pensare, perché lamentarsi se le redazioni sono piccole, quando in quelle grandi
la gente viene lasciata senza lavoro? La sensazione è sempre più forte. La
mobilità non farebbe male, anzi, Farebbe benissimo a tutti. Purchè anche gli
editori si trovino improvvisamete senza personale, e ne abbiano bisogno, purchè
si possa cambiare spesso e quando si vuole. Purchè  nonsi debba venire
cancellati professionalmente ed economicamente perché resti a spasso per qualche
mese. Insomma le solite utopie.

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Economie – Diario di una giornata in redazione 22 settembre 2008

Migliaia di euro e passa di immagini e articoli da pagare. Un bel regalo. E’ quello che lascia uno dei direttori licenziati in una casa editrice. Sono soldi che devono essere ancora sborsati, una sorta di prenotazione, ma corrispondono all’impegno a saldare il debito in un secondo momento. Sono spese quindi non vengono immediatamente conteggiate nel borderò, il conto della massaia che viene fatto per ogni numero, nel quale vengono sommati tutti i costi precisi del giornale (l’articolo, la notiziola, la foto, il reportage…) che verrà pubblicato quel mese, o quella settimana.
Sono invece spese future, che non appaiono dunque, ma sono molto concrete.
Il meccanismo su cui si è basata questa elegante truffa è molto semplice e fa parte del rituale classico dell’economia di redazione. Il direttore, qualsiasi esso sia, passa la maggior parte del tempo a sfogliare riviste fatte da altri. Generalmente, chissà perché, americane. Poiché i giornali sono fatti soprattutto di immagini, appena vedono qualcosa di decente corrono dal photo editor e impongono di contattare l’autore/l’agenzia che ha fornito la foto, per assicurarsi l’esclusiva per l’Italia. Sanno che altri direttori, nello stesso momento, stanno seguendo lo stesso rituale. E’ una gara a chi arriva prima. E le agenzie, ovviamente, se ne approfittano. Anche perché conoscono bene i loro polli. I direttori hanno amori istantanei e viscerali, non di lunga durata. E molti, dopo la prima smaniosa ansia di arraffare, quando arriva il momento di mettere davvero in pagina il servizio hanno già cambiato idea. Perchè la notizia è possa (nel caso migliore) ma anche perché il colore dominante di quelle foto  non si accosta bene con la pubblicità, o con le altre pagine del giornale.
Il risultato è un sistema economico che asseconda, e sfrutta, questo modo di fare. Le agenzie non fanno pagare tutto il servizio subito, ma si limitano a richiedere un salato diritto di prelazione (che garantisce al giornale di essere il primo a pubblicare quelle foto) e un impegno a pagare in un secondo momento.
Così può capitare che mentre il borderò sia sempre entro i livelli di budget previsti per una certa testata, il direttore nel frattempo accumuli debiti per servizi futuri. Che nel caso venga licenziato non verranno forse mai utilizzati.
Sorge spontanea la domanda: nessuno controlla questo aspetto? Pare di no: i direttori di oggi vengono controllati in tutto per tutto: gli si impone una certa copertina, un certo taglio, un certo servizio, ma per quanto riguarda i conticini gli viene data briglia sciolta. Peccato. Peccato perché invece di impegnarsi con agenzie fotografiche, e con i giornalisti esterni, sarebbe stato più gentile impegnarsi con le redazioni che stavano sotto di loro. Per
esempio pagando gli straordinari. Oppure assumendo (con contratto temporaneo, per carità) la persona in più che era stata richiesta per poter far meglio il giornale. Facciamo i conti. Se il debito lasciato fosse per esempio 100 mila euro, quanti redattori con contratto di tre mesi ci saremmo potuti permettere?
Non solo. Perché ai lavoratori viene chiesto di fare il conto di temperini e matite, o di spendere 10 euro per cenare quando sono in giro per lavoro?
Vado a casa a farmi una pizza. Io tengo tutti gli scontrini e so qual è la farina più conveniente, il lievito lo produco da sola con il metodo della pasta acida. E il pomodoro l’ho coltivato sul balcone. E posso solo sperare che il direttore in questione abbia ora del tempo per dedicarsi anche l*i a queste attività.

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Arte funeraria – Diario di una giornata in redazione 19 settembre 2008

Offerta di lavoro. Cercasi fiorista esperto/a in arte funeraria. Impiego part time. Appena vedo questo annuncio esulto. Scrivo velocemente la mail, tratteggiando in modo opportuno e pilotato il mio curriculum. Esalto le parti utili. Tutto qui. Rivelando una attrazione per le corone da fiori e i bouquet di tulipani neri. E nella lettera di accompagnamento spiego il motivo per cui una giornalista sia disposta ad accettare questo tipo di impiego: “Vi domanderete perché sia interessata alla vostra offerta. E’ presto detto: molti pensano che il giornalista sia un lavoro bellissimo in cui si ha molta indipendenza, o si guadagnano molti soldi. Non è così. Ci siamo ormai trasformati in tutt’altro. Inoltre in questo momento io vivo una situazione di lavoro ormai per me insostenibile. Vorrei tornare ad occuparmi di cose più concrete. e partire da un lavoro come fiorista, anche part time, mi darebbe una possibilità di maggiore respiro. E mi darebbe l’opportunità di tornare a una mia antica passione”.

E’ fatta. In questo periodo ho mandato mail di tutti i tipi, ogni giorno almeno cinque. Ad amici, per segnalare il mio desiderio di fuga, a contatti ottenuti da passaparola, per offrire le mie competenze, a perfetti sconosciuti, nel tentativo di incuriosirli.
Nessuna risposta, mai. E’ incredibile vedere come la netiquette, che prevede che una risposta, anche concisa e lapidaria, venga sempre mandata, in questo caso non valga. Evidentemente nel caso delle ricerche di lavoro le regole sono diverse. Chi riceve la missiva la tratta come se fosse spazzatura. Qualcosa da buttare immediatamente nel cestino. Figuriamoci poi se si tratta di un giornalista che cerca di riciclarsi contemporaneamente come fiorista, video maker, creatore di siti internet.
Ma il desiderio di passare a fare qualcosa che faccia parte del mondo della realtà, o meglio ancora lavorare per qualcuno che ha bisogno di quello che fai, è troppo forte. Il lavoro immateriale di chi lavora oggi, in Italia, nei media, purtroppo non serve a nessuno. La competizione non è basata sui saperi o sulle abilità. D’altronde è tutto ciò è perfettamente normale. Nei giornali non c’è nessun bisogno di persone che sanno come scrivere di un argomento. Anzi.
E’ molto meglio se sono totalmente ignoranti. In questo modo infatti non possono accorgersi che la richiesta del caporedattore di mettere in luce alcuni
aspetti invece che altri, aveva un secondo fine. In questo modo non si accorgeranno che la bella favola che devono raccontare in realtà può rivelare dei risvolti preoccupanti. In questo modo accetteranno di trattare qualsiasi argomento, perché uno vale l’altro. Compreso quello che viene scelto per rinforzare il messaggio pubblicitario che compare qualche pagina più in là.
Chi sa qualcosa di specifico, non può spendere in realtà  nessuna competenza, nulla che possa essere utilizzato nel curriculum. Laurea, la specializzazione, il master, i convegni,  le lingue parlate eccetera, sono elementi pericolosi, che è più furbo non mettere. Sarebbe molto meglio dare indicazioni sulla propria abilità di accettare qualsiasi compito, essere pronti a ogni richiesta, pur di ottenere soldi e carriera.
Forse bisognerebbe farsi fare una lettera di referenze simile a quella prevista per i collaboratori domestici. Il modello precotto che ho trovato in un sito internet dice: “Durante tutto il periodo della sua permanenza presso di noi si è dimostrata onesta, fidata, puntuale, capace di comprendere e svolgere ogni tipo di consegna e in grado di organizzare autonomamente il proprio lavoro”.

Per quanto riguarda l’arte funeraria, potrei far aggiungere nell’ultima richiesta, una frase come questa: ha sempre dimostrato una grande attrazione per gli spazi riservati ai cari estinti. Ha visitato i cimiteri principali di Parigi e Londra, trovando sempre ispirazione per le sue opere. In fondo, almeno questo, è del tutto vero.

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Il prezzo delle idee – Diario di una giornata in redazione 18 settembre 2008

Il responsabile di primo livello oggi è elegantissimo.
Rivela che l’editore gli ha chiesto di vederlo. Ma dice anche che l’incontro
non sarà oggi, ma in uno dei prossimi giorni. Dunque d’ora in poi lo vedremo
sempre in fresco lana? Visot che indossa l’abito di rappresentanza, decide
anche di procedere in una serie di richieste. Mi avvicina e mi chiede di poter
parlare in modo riservato. Lo seguo. Dopo qualche minuto di conversazione,
giusto per scaldarsi un po’, arriva l’offerta. Si tratta di una vera e propria
offerta di lavoro: ideare un nuovo prodotto da vendere. Quando chiedo quanto
viene pagato questo sforzo creativo, la risposta è un sorriso. Se il prodotto
va bene, arriverà un premio, che ora, ovviamente, non è quantificabile. Ma la
giustificazione arriva più rapida di una freccia. E fa male tanto quanto.
Questo tipo di lavoro, mi viene fatto notare, potrebbe riconsolidare i rapporti
tra me e l’azienda, che, come sanno tutti, si sono di recente deteriorati.
Inoltre potrebbe ridarmi fiducia, farmi sentire di nuovo importante. Un
lavoratore che conta qualcosa. Alla fine, se il prodotto venderà, arriverà
anche un premetto. Quando chiedo quanto, viene risposto che è impossibile
quantificare i quattrini, mentre di sicuro io potrò trarre grande soddisfazione
personale.
Le idee non si misurano con la bilancia. Le idee non sono
una merce reale. Le idee arricchiscono
umanamente chi le produce.  Tutto vero. Ma è ancor più vero che le idee sono gratis. Ma sono in grado lo stesso di generare profitti.
Il mercato si è spostato dallo sfruttamento delle merci concrete allo sfruttamento delle merci immaterialii.  E il risultato è che una
piccola idea può rendere molto. Chi ci guadagna non è chi
l’ha pensata. La regola è diversa: i profitti si sviluppano ad ogni passaggio di
mano, e quanto più sono lontani dalla sorgente del reddito, tanto più sembrano
redditizi.
Non sono una pigra. Mi fosse stato detto: “visto che non hai molto altro da
fare, ti assegno quest’altro compito”, avrei accettato. Sono qui per lavorare (altrimenti andrei a fare un giro in bicicletta), e
posso anche uscire dagli stretti ruoli assegnati. Ma la richiesta è diversa.
Dovrei fare una cosa diversa dal solito solo per sentirmi felice e realizzata. Il fatto di creare un
prodotto che permetterà alla casa editrice di intascare soldi in più, è un incidente secondario.
Ho rifiutato. E non so dove mi porterà questo rifiuto. Altre
volte ha protato a una riduzione die compiti. Ma adesso siamo già ai minimi.
Altre volte a portato a un maggior controllo, ma adesso non produco nulla,
dunque non posso neppure essere controllata. Come spesso succede, quando hai
toccato il fondo non c’è più nulla che ti possa spingere più in basso. Anzi.
Semmai può esserci un ribalzo che ti permette di uscire dalla fossa.

Questa mattina ho mandato il mio curriculum a un grande
magazzino che cerca creatori di minisiti web per la comunicazione ai clienti. Un
lavoro trasparente. Non si lavora su pubblicità spacciandola per contenuti. Si
lavora su contenuti e li si spaccia per pubblicità.

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Fuochi artificiali – Diario di una giornata in redazione 17 settembre 2008

A volte nelle case editrici accadono cose che nessuno avrebbe potuto prevedere: due direttori fatti fuori in un colpo solo. E che possono anche sorprendere positivamente, soprattutto se fino a quel momento i capi si sono mossi invece con estrema lentezza e indecisione. In fondo perché continuare ad accanirsi con le basse leve, se eliminando un alto stipendio si eliminano anche alti costi? I direttori sono in effetti le uniche figure che possono essere licenziate in un giornale che appartiene a una casa editrice con bilanci in positivo. Hanno però dei consistenti buon uscita, contratti capestro che portano a rimandare il più possibile l’estrema decisione. E per questo rimangono anche se le vendite stentano, le redazioni soffrono, le spese non vengono abbattute. Questa volta è andata diversamente. Forse contagiati dal morbo Lehman Brothers (l’effetto emulazione è ovunque) i responsabili amministrativi hanno preso l’estrema decisione.
Le riviste in questione non marciavano. E avranno destini diversi. Due casi interessanti, per motivi diversi.
Una delle due verrà diretta da una giovanissima giornalista, finora semplice redattore e attualmente in maternità. Una carriera brillante della quale si potrà dire solo in futuro. A volte anche le persone migliori, quando diventano direttori, si trasformano. Purtroppo in quel ruolo poco conta la capacità di raccontare, avere idee, o intuito giornalistico. Sono elementi importanti, ma nella ricetta ci sono altre cose che pesano di più. Prima tra tutte l’organizzazione del lavoro degli altri. Questo significa saper tagliare dove ce n’è bisogno, fare promesse che potrebbero non essere mai mantenute, non farsi prendere in pugno dalle persone di cui si ha bisogno, e senza le quali il giornale non può uscire, mantenendo un rapporto di complicità distante. Poi c’è il rapporto con l’editore. Fare il direttore oggi non è come una volta. Non si può fare di testa propria. Le copertine, a volte perfino il menù dei servizi che compaiono nel giornale, tutto viene deciso con l’editore. E il direttore si è sempre più trasformato in una sorta di caporedattore, che deve seguire precise direttive. Quali? Quelle imposte dal marketing, ovviamente. Il risultato è che gli argomenti vengono impostati seguendo criteri strettamente commerciali. Per esempio si farà in modo che non siano significativi, ma solo attraenti per la maggior parte del pubblico possibile.
Yochai Benkler in La ricchezza della rete, a tale proposito parla chiaro: gli editori non sono interessati all’informazione in se e per se. Quello che conta è incontrare il gusto più mediocre, non altro: è l’unico in grado di accontentare tutti. Per questo motivo, sostiene, è inutile aspettarsi che i prodotti commerciali sposino l’alta qualità, o decidano di puntare su contenuti seri. Non venderebbero nulla. E cita un grande editore che sosteneva che nessuno comprerebbe un giornale che gli fa andare di traverso la colazione.
Al direttore viene infine chiesto di non fare lo snob quando gli si chiede di infilare le citazioni dei prodotti tra una riga e l’altra. E neppure di protestare se il rapporto tra il numero di pagine del giornale e quello della pubblicità è decisamente sbilanciato. Non solo. Gli si chiede anzi di aiutare in prima persona l’ufficio marketing, sviluppando iniziative che possono portare nuovi fondi, oppure nuove pagine di pubblicità. Insomma, gli inviati speciali, quelli che fanno inchieste o reportage, ma anche i giornalisti specializzati, fanno un mestiere completamente diverso da quello del direttore. E infatti i due mondi spesso collidono.
Per l’altra testata potrebbe essere previsto un percorso diverso. Fa già parte di una rete internazionale, si assimilerà ancora di più. Un raro caso di globalizzazione totale dell’editoria. La stessa bellissima polpetta viene preparata per una decina di Paesi, da una redazione centralizzata.  Poi viene tradotta nelle varie lingue, da redazioni finalmente ridotte all’osso. Si sa che ormai non ci sono più differenze nazionali, che apparteniamo a una macroarea omogenea. E lo sanno/vogliono soprattutto gli investitori pubblicitari, le grandi marche di scarpe, automobili, abbigliamento, orologi, profumi, che vendono le stesse merci in tutto il mondo. In questo modo pagheranno un interessante forfait che gli assicura una presenza allargata.
Le giacchette tutte uguali dei cinesi erano noiose. Adesso abbiamo tutti la stessa cintura sui pantaloni. Ma è diverso. Ci piace. E poi io la metto sui fianchi, la mia amica sulla pancia, un’altra la usa a tracolla…..  

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Collaborazioni d’oro. Diario di una giornata di redazione 16 settembre 2006

Come al solito la tentazione di portare qui al lavoro l’uncinetto, la maglia, o un bel puzzle è forte. ma finora mi sono astenuta, anche perché amo fare anche altre cose. Nell’Attesa Totale che si compiano gli unici quindici giorni in cui lavoreremo al giornale (grazie alla grande macchina organizzativa che governa il nostro lavoro), la conversazione fluisce su vari argomenti. E se sostenere la pena della collega fermata al check in di un volo perché in possesso di un biglietto con il nome sbagliato può essere noioso, la mia attenzione invece viene finalmente risvegliata da un altro dibattito: quello sulle collaborazione interne. Le collaborazioni interne sono articoli (ma anche grafica di pagine, o ricerche fotografiche) che vengono fatte dai redattori di altre testate della stessa casa editrice. Il contratto di lavoro giornalistico ha sempre sottolineato l’importanza dell’appartenenza di testata. Se uno lavora per un giornale, il suo tempo lavorativo deve essere assorbito esclusivamente per quella testata. Può sembrare un provvedimento sbagliato, ma in realtà non lo è, almeno non del tutto. Fare in modo che una persona lavori per un certo ambito e non possa essere spostata a seconda dei desideri dei responsabili infatti è una forma di protezione del lavoro intellettuale. Sapiamo bene a cosa può portare la mercificazione degli intelletti.
Insomma, il giornalista normalmente non dovrebbe creare un pezzo finito che poi può essere venduto a chiunque. Dovrebbe mantenere un senso di appartenenza a quello che fa, dunque anche un controllo. Dovrebbe, almeno in teoria, informarsi, avere idee, scrivere, pensare, prendere contatti, occupare la propria mente. E se lavora per un giornale, si suppone che il suo tempo mentale sia riservato a quel progetto e non ad altri, almeno fin tanto che è in redazione. Tutto questo in Italia non so neppure se è mai avvenuto. C’è qualche esempio sporadico, ma nulla di più. In ogni caso negli utlimi anni il giornalismo è diventata una attività commerciale, al soldo della politica di palazzo o della pubblicità.
Ho sempre pensato che se il lavoro ti piace e ti prende, è difficile staccarsene anche a fine giornata. Però poi è vero, lo ammetto, che anche a me è capitato di fare collaborazioni per altri. Quando ho lavorato per giornali dove il contenuto era importante ho sempre cercato di differenziare, scrivendo per esempio rubrichette su tutt’altri argomenti, giusto per far tornare gli equilibri economici. Di notte, ovviamente. ma erano altri tempi.
Per rispettare la prevalenza di appartenenza a una testata, e per evitare che il giornalista venga fatto lavorare una volta per lo sport, una volta per il femminile, una volta per chissà cosa, si è fatto quindi in modo che se il  giornalista collabora per un altro giornale della stessa casa editrice, il suo articolo viene pagato a parte, come collaborazione esterna, e in quanto tale, si suppone, fatta fuori dall’orario di lavoro.

Qui dove lavoro il discorso è del tutto diverso. Le scalate di carriera sono sempre più difficili, e gli aumenti anche. Così i direttori hanno trovato un brillante escamotage per aumentare lo stipendio ai Migliori. E’ una formula alchemica di non facile comprensione, una situazione particolare, dovuta all’elaborato piano editoriale che è stato messo in atto, e che prevede una testata madre forte e una serie di consorelle, tutte dipendenti dallo stesso direttore. Lo stesso capo dispone liberamente di diversi spazi su cui far lavorare le varie persone. I Fortunati percepiscono uno stipendio per il giornale Numero Uno, e  occupano contemporaneamente il proprio tempo (con l’avvallo del direttore) per scrivere (dunque guadagnare) per il giornale Numero Due. In più ci sono poi anche altre testate governate da altri direttori, che agiscono in base a varie simpatie. Alcune persone, grazie a questo intelligente trucco, sono riuscite a raddoppiare i loro stipendi, pur restando redattori ordinari, senza promozioni, senza incentivi, senza apparenti riconoscimenti. L’editore sa, il direttore sa, il lavoratore sa. Una formula perfetta.
Lo so. Potrei sembrare reazionaria. Ma questo sistema non mi è mai piaciuto. Chi ci perde? Il lavoratore Non Bravo, Non Rispettoso, Non Omologato. Con tutti questi collaboratori a portata di scrivania, e ancora più disponibili e controllabili di quelli esterni, è infatti estremamente semplice lasciare senza lavoro chi non se lo merita. E che ovviamente non avrà neppure aumenti e passaggi di carriera. Il risultato è perfetto. E apparentemente nessuno può criticare questa situazione. Persino i rappresentanti sindacali non intendono intervenire. Se salta fuori che non lavoriamo tanto, e che abbiamo tempo per scrivere nelle ore di lavoro, potrebbero ridurre i posti, è la risposta.  
Sarà. Forse non ho capito nulla. Questa strategia potrebbe essere la risposta alla richiesta di qualità nei giornali. Ieri, su Affari e finanza, il supplemento economico di Repubblica, c’era una paginona intitolata "Il grande freddo dei giornali Usa, tutti su Internet per sopravvivere". Dove si preconizza, come come viene ripetuto troppo spesso ormai, la fine della carta. Si salveranno solo i giornali di qualità eccelsa. E infatti, riporta l’articolo, non sono affatto preoccupati i padroni di Wall Street Journal (Murdoch), Times (Slim Helù Aglamaz) e New York Times. I miliardari americani Sandler, hanno avuto il coraggio di finanziare ProPublica, una testata indipendente che dovrebbe dare spazio al giornalismo di investigazione. I loro servizi, preparati da una redazione di 27 persone e da uno stuolo di collaboratori, potranno essere usati da giornali e radio, gratuitamente. Auguri.

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I giornali vanno a fondo? Diario di una giornata in redazione- 15 settembre 2008

Sono distratta, lo ammetto. L’idea della fuga mi è entrata nel cervello  più o meno due settimane fa.
Un po’ troppo presto, visto che le vacanze forzate mi hanno riportato in redazione da meno di un mese.
Ma raggiungere una mia amica in Cina mi sembra adesso l’unica cosa che abbia un senso compiuto. Il
tempo che dovrebbe mancare alla partenza (forse venti giorni), in ogni caso sembra una eternità.  Siamo
al punto che la mattina, quando inforco la bicicletta per andare a lavorare, mi viene la nausea. E non
serve fermarsi lungo la strada a bere il caffè. Semmai è più utile fare qualcosa nelle prime ore della
giornata. Oggi per esempio ho stirato un monte di roba. E questo ha alleviato la fatica. Stirare, come
andare in bicicletta, è una attività che si può praticare alla velocità che si vuole. Si può essere
lentissimi, e pensare con calma, oppure si può filare veloci, con il cervello che scandisce un ritmo
martellante e un po’ aggressivo.  
La sensazione di sospensione, ho scoperto in questi giorni, è comunque condivisa da molti. Dopo gli
ultimi interventi del direttore del personale, che ha spostato persone da qui a lì, che ha negato il
riconoscimento di ruolo a persone che avevano quella funzione da anni, che ha soprattutto interpretato
la sgradevole parte del grande burattinaio, e che, dopo uno sciopero particolarmente ben riuscito, ha
ordinato ai direttori di organizzare riunioni in ogni redazione per spiegare perché eravamo stati
bambini cattivi e quanto pericoloso fosse questo comportamento per la nostra casa editrice (dunque per
il nostro posto di lavoro), tutti si domandano cos’altro possa accadere.
E’ ridicolo, ma io, quello che trovo di insopportabile, non è l’atteggiamento di potere esercitato dai
dirigenti. Ma l’esercizio del fantastico e sfolgorante sorriso a piena dentatura, praticato da chi
governa gli schiavi. Forse qualcuno dovrebbe spiegare a tutti che nel mondo animale nessuno si sogna di
mettere i denti in bella vista, in nessuna forma: è atto brutale di aggressione, una minaccia
esplicita. E sarebbe il caso che anche noi imparassimo a interpretarlo in questo modo.  
Io preferisco rispondere con il sorriso della mente. Quando il business manager che fa i conti della testata in cui ho lavorato fino a poco tempo fa è arrivato a spiegare la Tragica Situazione, e a dirci quanto Incoscienti e Folli siamo a scioperare, ho fatto notare che poteva anche darsi che la casa editrice avesse avuto un danno economico. Ma visto che ha i bilanci in attivo e non può permettersi di licenziare nessuno, noi lavoratori non possiamo proprio aver paura di perdere il posto di lavoro da un giorno all’altro. Noi ci preoccupiamo piuttosto di quello che accadrà a lungo termine, nostro e di chi viene assunto via via con periodi di tempo sempre più brevi, visto che le strategie aziendali non si profilano neppure all’orizzonte. Mai. Alla domanda: come pensate di risolvere l’attuale crisi editoriale? La risposta che si ottiene è sempre la stessa: siamo in un brutto periodo, ma passerà. La pubblicità, come nei mitici anni ottanta, tornerà a risplendere nelle pagine dei giornali, e a riattivare il torrente dei soldi.
Forse sono sordi, o forse non leggono i giornali perché sono troppo impegnati. Sembra che non abbiano letto neppure i testi dei discorsi di Rupert Murdoch, il magnate dell’editoria americana, che da anni continua a ripetere che prima le televisioni, poi Internet, hanno cambiato completamente il quadro. E nel futuro questo problema sarà sempre più evidente, se non si cambieranno i presupposti dell’informazione.
Come sappiamo a questo punto molti hanno visioni divergenti. Murdoch ovviamente pensa a come creare nuovi monopoli. Questa rete, altre reti hanno dimostrato che ci sono altre alternative. Gli editori di carta italiani invece sono monolitici, duri e puri. Non cambiano idea. Come il vecchio contadino, rimangono saldamente attaccati alle loro radici, anche se sono marce. Pensano che l’importante sia resistere nel momento difficile, per poter tornare a fare come sempre tra poco, quando, hanno il coraggio di dichiarare, l’economia ripartirà e gli investitori pubblicitari si faranno di nuovo sentire. Ho commesso l’errore, all’ultima riunione, di far notare che erano stati recentemente pubblicati i dati della Nielsen Media Research che rivelano che la pubblicità è salita dell’ 1,2% nella tv e del 3% nella stampa, mentre internet registra il record del più 42,7%. Los guardo è stato chiaro: a volte è meglio tacere. E ho dovuto lasciare la stanza pensando se la mafia, l’effetto serra e persino la Cina, esistano oppure no.

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Giornalismo? Diario di una giornata in redazione 12 settembre 2008

Questa mattina mi arriva sul tavolo una delle testate della
casa editrice. Abbiamo la fortuna, ogni mese, di ricevere tutti i prodotti che
vengono fatte dalle varie redazioni, compresi i loro preziosissimi gadget, che
vanno dal film sulle ultime guerre puniche, alla borsetta dorata, al puzzle di
gomma. Un po’ di tempo fa era stato pubblicato pure un film revisionista
spacciato come testimonianza storica. Quando ce ne siamo accorti (in quattro su
oltre 80 giornalisti) avevamo anche fatto una lettera di protesta. Non abbiamo
mai ricevuto neppure una riga di risposta dal direttore che aveva firmato la
prestigiosa opera. Amen.

La rivista che mi arriva oggi è il fiore all’occhiello della
casa editrice. Fiore culturale, perché in realtà non vende. Ma è la sorella di
una storica testata fatta all’estero, e che, sempre all’estero, è stata una
delle testate fondanti della casa editrice, una multinazionale tra le più
importanti in Europa. Certo, la versione italiana ha poco a che fare con
quell’altra. Ai servizi impegnati sono stati sostituiti argomenti più positivi,
più in grado (è la scusa ufficiale) di incontrare i gusti del grande pubblico,
che com’è noto non pensa, vuole distrazione, sogno e segnalazioni di prodotti
interessanti. Non per incentivare il consumismo, si guardi bene. Ma per informare
e incuriosire la gente, e semmai aiutarla ad alleviare le proprie frustrazioni
esclusivamente con merci di qualità.

Ecco perché nelle prime pagine della rivista compare una di
quelle belle paginette che riescono a scampare per un pelo la denuncia per pubblicità
occulta solo perché in alto compare la scrittina "promozionale". Ma
che per il resto, ad alcuni, appaiono sorprendentemente  molto simili a tutte le altre. E’ un
abbaglio, sia chiaro, evidentemente una percezione distorta che solo un animo
malevolo può provare. La risposta infatti è sempre la solita: il lettore si
accorge subito, sa la differenza, capisce la necessità che il giornale contenga
anche pubblicità, altrimenti non ha i soldi per uscire. Come si fa a non essere
contenti di questo? Non abbiamo davanti un popolo di pecoroni! Ed è davvero
incredibile, visto che per il resto delle pagine vagolo invece altri
criteri.  Il lettore, è il mantra
ufficiale, ha il diritto di essere distratto e un po’ ignorante. Noi dobbiamo
spiegare tutto in termini semplici e chiari, dobbiamo permettergli di
svolazzare qua e là tra le frasi, senza perdere il senso generale. Quindi
dobbiamo essere superficiali, allegri, e non dobbiamo mai intaccare il suo
buonumore.
In un articolo non ci si può certo permettere di analizzare
in modo troppo approfondito un problema, o di presentarne i lati negativi.
Giammai. Nel caso dovesse inevitabilmente capitare, è necessario indicare anche
tutte le possibili soluzioni, che ci fanno sentire di nuovo sicuri di vivere in
una società del benessere, dove tutto fila liscio come l’olio.
E se il promozionale non basta, ed è il caso del numero che
stavo sfogliando, perché non rinforzare l’informazione con un bel reportage che
tratta dello stesso tema? Così i lettori possono saperne di più. E non potranno
che ringraziare la rivista, continuando a comperarla in futuro.

Mi viene un dubbio cosmico. Il lettore dunque legge il
promozionale, sgama il promozionale, poi arriva al reportage e finalmente si
rilassa? Può darsi. Evidentemente sono un po’ esaurita: è chiaro che non riesco
più a capire la logica della vita quotidiana. Mando una lettera al presidente
dell’ordine dei giornalisti per chiedere se è questo è giornalismo. Vediamo se
risponde.

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Ministeriale-Diario di una giornata in redazione 11 settembre 2008

Ok. Dopo tre settimane di nulla inizio effettivamente a sentirmi
nulla pure io. Complice il fatto che i miei progetti “esterni” sono in fase di stallo,
in attesa del prossimo passo. Inevitabile a questo punto accorgermi che nonostante
avessi deciso di prendere un lungo periodo di assenza per lasciarmi trasportare
dal più piccolo stimolo disponibile in giro, non mi trovo affatto in questa
situazione. Insomma. Lo stipendio e la poltroncina hanno operato di nuovo la
loro magia. E mi hanno tenuta incollata. Qual è la scusa? Sempre la solita:
prendo i soldi lo stesso e faccio le mie cose. Si ma cosa, per quanto e con che
forza? Basta aprire gli occhi un attimo, guardarsi in giro e immediatamente si
prova la vertigine. C’è un intero mondo fuori. Un mondo duro, inospitale, ma maledettamente
affascinante. Un mondo che, a sua volta, non garantisce lavoro, non garantisce
neppure i soldi, tanto meno soddisfazioni. Ma resta pieno di possibilità. Che
fare? Mando di nuovo cinque mai a cinque contatti che forse, magari, un giorno,
chissà…. Cinque piccoli semi che potrebbero anche germogliare. Se fossi
fortunata. E’ in questi momenti che si ricorre all’oroscopo. Perché non si
capisce più la logica che impedisce che le cose fluiscano, accadano, si
muovano. Tutto invece sembra sempre fisso, al palo. Al palo dello stipendio
fisso. Non è poco.

Leggo ovviamente l’oroscopo di  internazionale (altrimenti che mind worker
sarei?). Dice:  non sei la persona più diretta del mondo. E neanche la più concisa.
Certe volte giri troppo intorno alle cose e prendi la strada più lunga per
arrivare alla verità. Ma allora perché sembri esserti trasformato in un modello
di precisione comunicativa? A cosa dobbiamo la tua nuova efficienza, la tua
sinteticità e la tua volontà di esprimerti con esattezza? Forse dipende
dall’allineamento dei pianeti. O forse veramente non vuoi essere frainteso.

Ok. Le mie mail Erano precise,
comunicative, incisive, dimostratrici di efficienza. Altrimenti come li trovi i
nuovi lavori. L’oroscopo di internazionale ha sempre un sottile senso ironico.
Capisco il messaggio. Mi sa che oggi pomeriggio cerco il giornale dove offrono
i posti di lavoro al ministero…

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