Cina- Diario di una giornata in redazione 7 novembre 2008

Andare in Cina per fuggire di nuovo da una situazione che stride è stata una scelta che ha portato un interessante risultato. La Cina è un paese difficile, duro, che ha un immaginario che non corrisponde per nulla alla sua realtà. E a differenza di altri posti, il mondo parallelo, che si sente, che si sapeva esistere, non esce, non fluisce nelle emozioni del posto. Andrebbe cercato con calma, con ostinazione e anche con un po’ di pretesa di raggiungere l’obbiettivo. Ma non sempre si ha il tempo, la cultura e la forza di farlo. Io almeno questa volta non ero in questa situazione. Sono partita alla chetichella, tra una domanda da fioristi e una per lacchè nel solito giornale patinato. E avrei avuto bisogno di essere avvolta da sensazioni forti, non di fare il martello pneumatico che trova risposte a mille domande. La prima è per esempio quali sono i parametri economici (intendo dire, non un voce enciclopedica, ma un parametro numerico) che precisamente definiscono un paese in via di sviluppo. Un dubbio che segue la domanda: perché la Cina viene ancora considerata un paese in via di sviluppo? Non mi pare che sia strozzata dal debito con i paesi occidentali: anzi, ha diversi prestiti nei confronti degli Usa. Non ha un basso tasso di  crescita, visto che l’altro giorno sul giornale China Daily, in un editorale, si lamentavano perché per colpa della recessione americana erano scesi sotto le due cifre, raggiungendo un valore pari "solo" al 9 per cento (noi siamo all’ 0,5). Non ha una ristretta base industriale e neppure poca accumulazione di capitali.

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Esuberi 1- Diario di una giornata in redazione 22 ottobre 2008

Ma tu sei part time o a tempo pieno? Chide di punto in bianco oggi il responsabile di primo livello. Rispondo che sono a tempo pieno. Non se ne è forse accorto? Sospetto sia una domanda a doppio fine. Dopo un po’ in un momento di espansività inizia a raccontare che ha appena parlato con il direttore. Stavano cercando di organizzare meglio gli spostamenti che sono avvenuti negli ultimi giorni, Ma, mi fa notare, il direttore ha anche rivelato che  nella nostra testata ci sono degli esuberi. Una cosa assurda, dice il responsabile di primo livello. Che però evidentemente ha la necessità di sottolineare questa informazione, visto che negli ultimi giorni, nei corridoi e davanti alle macchinette da caffè, l’ha fatta circolare ampiamente. Io sto lavorando intensamente in questi giorni. Caso strano, ma è così. Stavo giusto scrivendo un complicato box di biologia, di quelli in cui devi controllare tre volte ogni informazione, quando è arrivato l’ultimo stimolo.
Ho alzato lo sguardo distrattamente. Poi ho deciso che la distrazione non può continuare. E ho deciso di esprimermi non come prevede il codice di condotta dell’ufficio, ma quello di una persona che riceve l’ennesima ferita mortale. E non mi sembra nè affascinante nè utile neppure il concetto della risata che seppellisce: in questo momento avrei tutti i diritti di ridere dell’assurdità che ho appena sentito, ma non mi sembra questa la risposta giusta.
Ora cerco di analizzare in modo razionale la situazione. Elemento uno: la domanda su part time e tempo pieno. Non mi sembra completamente scollegata dall’ Elemento due, la comunicazione che siamo in esubero. Elemento tre, la mia richiesta lecita: dunque cosa devo fare? (parte dal presupposto che se viene data una informazione, la si deve anche utilizzare in qualche modo). Elemento quattro, la risposta: insomma è inutile che tu te la prenda tanto. Se vai avanti così non ti dico più niente.
Magari!
Era davvero inutile questa conversazione? Si trattava di un passatempo per ingannare l’interminabile tempo in ufficio? Non credo.  La sensazione di “essere di troppo” non può essere provocata gratuitamente. Non può scivolare. Soprattutto se in quel momento stai lavorando intensamente, Da persone mediamente intelligenti verrebbe da dire: evidentemente voleva suggerire qualcosa. Ma troppe cose non tornano.  Tutto accade in un momento in cui è stato appena assegnato un lavoro che tra poco diventerà molto importante per la rivista per cui lavori, e ti viene chiesto dell’altro. In più, volendo, verrebbe da allargare lo stretto campo visivo, analizzando la situazione più generale. Il mercato del lavoro, in questo momento, non consente ai lavoratori a tempo pieno di affrancarsi licenziandosi sui due piedi da un posto in cui “sei di troppo”.  Questo lo sanno tutti. Loro e noi. Inoltre. Si è mai visto qualcuno che spontaneamente si licenzia perché sente di dover ottemperare a un obbligo morale richiesto dall’azienda? Dunque, o il datore di lavoro è un Utopista, oppure ha in mente altro. Cosa significa dunque “essere di troppo”? E che tipo di stimolo deve provocare?
Se fossimo capaci di reazioni dirette, semplici e lineari, una scena come questa si chiuderebbe con una risata.

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Esuberi 2-Diario di una giornata in redazione 23 ottobre 2008

Che cos’è un
esubero?

Esubero è un
derivato del verbo "esuberare", a sua volta figlio del latino exuberare,
composto di ex, con valore intensivo, e uberare, "produrre frutti, essere
fertile. Ma uber, significa sia "mammella" sia, come aggettivo, "fecondo,
abbondante". Insomma esubero è il contrario di copiosità ovvero ricchezza,
fertilità. Esubero, sostantivo maschile, nei dizionari sta per "eccedenza,
esuberanza, sovrabbondanza, soprannumero, quantità superiore al bisogno". E già
qui è necessario soffermarsi un momento. La parola esubero infatti, nella lingua
italiana è evidentemente legato a un concetto di quantità. La quantità però è
relativa a qualcosa di ben definito, materiale e numerabile. Tipico di oggetti
concreti .Può esserci un esubero di maniglie, di bottiglie del latte, di matite.
Più difficile invece, almeno secondo i linguisti, è applicare il significato di
esubero alla sfera intellettuale, dove potrebbero essere in esubero i cervelli
solo se intesi come ammasso di neuroni, non certo invece come fonte di
elaborazioni, analisi, connessioni e soprattutto generatori di informazioni.

Esubero viene
ritenuta, a livello linguistico, una parola più adatta ai sistemi economici del
secolo scorso, ancora strettamente collegati con merci concrete. E di più
difficile applicazione a quello attuale, quello della New economy, che secondo
gli esperti è stata in grado di generare redditi valorizzando il capitale
rappresentato dalla conoscenza e dalle idee.

Eppure,
cercando negli articoli pubblicati da un quotidiano (La repubblica), la parola
esuberi, presente  3900 volte dal 1984 a
oggi, ha subito un interessante crescendo: è stata usata 661 volte nel decennio
84-94 (66 occorrenze per anno, in media), 2.430 volte in quello successivo
(94-04) equivalenti ad una media di 243 volte l’anno e 1375 volte negli ultimi
quattro anni (04-08), che corrisponde ad un ulteriore aumento della media annua
a 344 “esuberi” l’anno. Minore frequenza (ma sempre in crescita) ha invece la
parola al singolare: esubero. E’ presente 
2.109 volte nei documenti dall’84 a oggi, 471 volte dall’84 al 94, 1.108
volte dal 94 al 2004,  e 781 volte dal
2004 al 2008.

C’è da
sospettare dunque che la sapienza, la conoscenza, le idee, così importanti in
questi anni perché si riteneva che aumentassero la produttività del lavoro e
portassero a una progressiva liberazione del tempo di vita dal lavoro salariato,
abbiano avuto invece l’effetto contrario.

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Crescita – Diario di una giornata in redazione 16 ottobre 2008

La mail che piomba nel mio account di posta, sul computer di lavoro, è corta, semplice e non lascia spazio a dubbi: “a causa dei dati di mercato in nostro possesso siamo costretti a sospendere qualunque aumento o passaggio di livello, a partire da oggi stesso”.
Interessante è la parte finale: da oggi stesso. Significa forse che le richieste di aumento e/o promozione hanno un ritmo quotidiano, ed è dunque indispensabile fermarle in tempo reale? Io credevo che fossero frutto di lunghe contrattazioni. Evidentemente mi sbagliavo. Alle prime leggo e faccio finta di non aver ricevuto. La mail non riguarda certo me, che ho perso da tempo ogni possibilità di carriera e/o di aumento. Chi riguarda dunque? Non certo i colleghi attempati: quelli hanno interi arsenali di armi a loro disposizione per ricattare e costringere il riottoso editore comunque, nonostante le dichiarazioni, a mollare qualcosa prima o poi. Non riguarda neppure i giovani di belle speranze, che vengono attratti con stipendi da fame. Agli inizi te ne freghi di eventuali freghi, e pensi che potrai comunque, prima o poi, andare avanti.  Forse riguarda chi è a metà carriera, che ormai è sull’orlo della noia, si è indebitato con le rate per l’auto e ha la necessità di guadagnare sempre di più per alzare il suo livello di autostima, consumo, posizione, professionalità.
La dichiarazione arrivata via mail non lascia in ogni caso scampo: frena ogni tipo di crescita. Ed evidentemente, come giustamente sanno i colleghi attempati, è falsa. Si tratta di un semplice tentativo di condizionamento psicologico. Magari qualcuno ci casca e sta buono.
La crescita, si sa, è il motore dell’economia del capitale. Bloccarla significa agire da terroristi, e destabilizzare il sistema. Cosa direbbero i membri del consiglio di amministrazione, se al primo bilancio annuale i power point non mostrassero delle belle linee in salita? Salterebbero sulle sedie. Noi invece ci dobbiamo sprofondare ancora di più. E aggrappare il sedile con forza sperando di poter resistere ancora qualche mese alla dissolvenza.
A noi lavoratori non è dato di avere delle perplessità quando scopriamo che l’azienda per la quale lavoriamo (e che ha diversi milioni di euro di attivo in bilancio) ci comunica di non prevedere più dinamicità. Si suppone invece ben altra cosa: dobbiamo essere contenti perché abbiamo un lavoro e uno stipendio. Di questi tempi una vera rarità.
E’ vero. Le ricerche di altri lavori me ne hanno dato una prova evidente. L’abbassamento progressivo degli stipendi offerti anche. Ma con che entusiasmo possono lavorare le persone assunte presso un’azienda bloccata? Avranno la sensazione di essere a fine corsa. Dunque perché lavorare bene, o meglio? Proiettando la situazione sulla scena di un film ambientato nel futuro mi viene da immaginare gli impiegati raccolti in un ufficio di piccole dimensioni. Indossano tutti in uniforme grigia, con una riga rosso spento per vivacizzarla. Hanno sulla faccia un’espressione di media felicità, emettono suoni di medio volume e intonazione e soprattutto rispettano gli orari in modo matematico. E assomigliano in modo preoccupante ai lavoratori dei grandi magazzini di Berlino est, prima che cadesse il muro.
E’ questo dunque il risultato del liberismo economico, della promozione dell’impresa, della spinta all’incremento? Se l’attuale mercato del lavoro ci sta portando ad avere stipendi bassi,  scarso entusiasmo nel lavoro, il terrore del licenziamento, è solo perché non siamo riusciti a creare alternative.
Agli inizi di quest’era, che a seconda dei paesi e delle aree economiche può andare dal 1600 al 1900, il datore di lavoro aveva un problema: voleva un salariato affidabile, che non lo mollasse dopo qualche giorno di lavoro, che venisse puntuale ogni giorno, che finisse quello che gli veniva assegnato. Per questo, e non certo perché era una pasta d’uomo, decise che era conveniente  stabilire un contratto con lui. Il lavoratore poteva trovare più conveniente lavorare solo per qualche giorno alla settimana, poi coltivare l’orto per dare da mangiare ai figli, oppure fare qualche lavoro occasionale, magari pagato molto meglio. Il contratto di lavoro è nato per far capire al lavoratore che uno stipendio ogni mese val la pena di abbandonare l’orto, acquistare il pane al negozio invece che farlo in casa,  o se vogliamo trasferire tutto questo a più comprensibili tempi moderni, è più comodo andare al ristorante e farsi cucire l’orlo dei pantaloni dalla sarta.
Dunque. Se noi costruissimo una alternativa di sopravvivenza di base (dall’orto, a fare il pane, a cucire vestiti, a fabbricare computer e reti elettriche) forse potremmo ribaltare la prova di forza che stiamo subendo. All’offerta di uno stipendio da fame, che ci costringerebbe ad abbandonare l’economia autonoma e di scambio per non guadagnare nulla in più, potremmo rispondere che non ci interessa. All’idea di lavorare per una azienda che, nonostante sia ben lontana da crisi finanziarie, fa finta di aver bisogno di un aiuto da parte dei suoi lavoratori, potremmo rispondere che preferiamo aiutare la ben più interessante rete composta dalle nostre famiglie e dai nostri amici.
Ma tutto questo impone un enorme cambiamento, uno stato di transizione che richiede lentezza. Il  ribaltamento dei rapporti di lavoro/economia/ dritti sta invece avvenendo troppo velocemente. E noi non stiamo ancora costruendo le zattere di salvataggio. Il toboga ci porta giù veloci. Dobbiamo iniziare a prepararci.

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Pipistrelli – Diario di una giornata in redazione 14 ottobre 2008

Eccoci qui. Siamo in cinque in attesa in un elegante
salottino che si raggiunge percorrendo tutto il garden center, infilandosi in
un corridoio, facendosi aprire con il citofono una porta anonima di colore
marrone (ma quando chiedo indicazioni a cassiere e commessi molti dicono che è
bianca). Ho passato la prima selezione. Evidentemente le mie risposte al
questionario sono state convincenti. Ma forse anche no, vista la quantità di
gente che si alterna nel corso delle ore che rimarrò qui ad aspettare. I cinque
iniziali infatti diventano molti di più se conto tutte le persone che vedo
sfilare nel tempo che trascorro qui. In realtà per il mio primo colloquio non
devo aspettare molto: giusto il tempo di dare uno sguardo agli altri, vedere
come sono vestiti, che età anno e immaginare per quale ruolo si stanno
candidando. L’atmosfera è abbastanza fredda e non succede nulla. Arriva una
ragazza con in mano un blocco. Sopra ci sono segnati tutti i nostri nomi. la
ragazza ha un aspetto normale. Ma si comporta come un robot. Il collo e la
parte alta della schiena sono rigidi e parla a macchinetta. Fa l’appello. E
scompare di nuovo. Apparirà e scomparirà più volte, recitando il suo elenco, secondo
un copione che, se fosse stato scritto per una piece teatrale, sarebbe
perfetto: lei è il tormentone, il pezzo forte di ogni commedia satirica.

Finalmente fanno il mio nome e mi indicano una porta a vetri
in fondo al corridoio. Mi preparo mentalmente. Mi accoglie una ragazza molto
gentile che mi fa subito mille domande, visto che evidentemente sono un caso
particolare. E’ sua l’idea di propormi non per mettere a posto i fiori o le
piante in serra, ma per un ben meglio pagato (1.100 euro al mese) impiego in
ufficio. Le rispondo che non mi interessa, ma mi solletica dicendo che si
tratterebbe dell’ufficio vendite. Chiedo dettagli e, secondo lei, dovrei vedere
le partite di piante da acquistare e scegliere quello che poi andrà messo negli
scaffali. Non è male penso. E accetto la proposta di propormi per questo ruolo
(mica il lavoro: siamo ancora ben lontani). Le sono piaciuta così tanto che
addirittura decide di farmi saltare un passaggio e farmi fare oggi stesso il
secondo colloquio, questa volta con il direttore del personale. Accetto: l’idea
di risparmiare un viaggio in tangenziale ovviamente non può farmi che piacere.
Ritorno in sala d’aspetto. I divani sono di midollino e i cuscini sono bianchi.
Un aspetto da upper class che stona, visto che siamo tutti qui a cercare di
raccattare lavori come pulire le gabbie dell’area zoo, sistemare i vasi,
comporre i fiori nei vasi. Tra di noi si nascondono anche quelli che faranno
parte dell’ufficio contabilità, dunque forse hanno una diversa necessità di
trattamento. Uno è seduto di fronte a me. E’ un signore non giovane, con un
completo color cachi, la camicia stirata e la cravatta. Evidentemente è qui con
speranze diverse rispetto al ragazzo che gli è accanto: felpa bianca (ben
stirata anche quella), jeans e una piccola cresta che tradisce il suo tempo
libero. Il ragazzo infatti dichiara: sono disposto a fare tutto, ma tenere i
serpenti mi preoccupa un pochino. E da lì parte un inizio di discussione,
quella che si impone tra persone che condividono lo stesso spazio per un po’, a
meno che non siano dei pezzi di plastica. Per fortuna non lo sono. Si parla del
pipistrello della frutta esposto al piano di sotto. Se ne sta sotto a un sacco
nero e Viene venduto a 100 euro. Mi piacerebbe mettermi davanti alla gabbia
fino a quando arriva il potenziale cliente. Per vedere che faccia ha. Ma sono
qui per altri motivi. Almeno apparentemente. Non riesco a sottrarmi infatti a
una proposta di discussione che parte di sottecchi, senza che quasi nessuno se
ne accorga, e che porterà lontano. Tu a che colloquio sei? C ‘è chi al primo,
chi è al secondo. Ma una donna rivela di essere già al quarto e di essere ormai
stanca di aspettare se verrà presa o no. Persone nuove continuano a entrare nel
salottino, man mano che gli altri se ne vanno e raccontano anche loro gli
infiniti appuntamenti a cui si stanno sottoponendo. Ora  non c’è più posto per sedersi in modo
composto. E il disordine, si sa, è sempre prolifico. In questo clima sempre più
rilassato si parla di precariato, e del mercato del lavoro. Mi verrebbe dire
mercato della carne. Il ragazzo con la felpa bianca rivela di aver lavorato per
due anni per un’azienda. e quando dovevano assumerlo gli hanno detto che gli
ordini erano diminuiti e non c’era più nulla da fare. Altre ragazze raccontano
la lunga serie di contratti brevi che hanno fatto. Ma lo fanno con un sorriso,
come se si trattasse di un gioco. Beh, dico io, a giudicare dalla quantità di
gente che stanno chiamando qui, forse  abbiamo finalmente messo le mani in una buona
situazione. Una situazione fertile, in espansione. Saranno pure contratti a
tempo determinato. Ma qui il lavoro pare esserci davvero. Il ragazzo che abita
qui vicino conferma: si, da ottobre a natale c’è un via vai continuo di
clienti. Che diventa folla da pugni al sabato e domenica. Una piccola pausa di
silenzio. Poi a me sorge spontanea la domanda: dunque forse noi siamo qui ora
per lavorare solo fino a Natale? La risposta non arriva. Nessuno la può avere.
Nessuno la vuole. Però da quel momento tutte le volte che qualcuno esce dalla
stanza e infila la porta d’uscita, oltre a salutare dice anche la parola:
auguri. Chissà se intende quelli per le feste.

Dopo due ore arriva finalmente il mio turno per il secondo
colloquio. Entro e c’è esattamente la persona che ti aspettavi di trovare.
Uomo, mezza età, occhiali, aria anonima. Mi fa sedere e una delle prime domande
che mi fa è quella più importante: sa usare excel? Un turbine mi si scatena nel
cervello: excel lo odio quasi quanto power point. E poi in realtà io uso
gnumeric. Il problema però non è il software, ma la filosofia. I fogli di
calcolo rappresentano per me l’essenza della burocrazia. della mancanza di
flessibilità. dell’inutilità dell’interpretazione, e dunque dell’intelligenza.
Rispondo che ovviamente so usare excel, ma commetto l’errore
di chiedere se è così fondamentale, visto che se non sbaglio mi stanno
proponendo per l’ufficio acquisti. dunque sottolineo le mie competenze in fatto
di piante: conosco i nomi, le so riconoscere, so capire quando sono
ammalate….

Il burocrate mi guarda, come se stessi parlando di mal di
pancia, con uno sguardo annoiato. Risponde un lapidario: excel è la base
dell’organizzazione dell’ufficio acquisti. E aggiunge: dunque se lei non si
trova bene con excel, io le consiglierei un altro ruolo. E scrive in
stampatello, in grande SERRA sulla mia domanda. Non so se ringraziarlo oppure
no. In realtà si, ma temo che questo voglia dire che in ogni caso non sono
interessante per loro. Non mi chiede infatti più niente: non mi chiede se so
trapiantare, se so smanetttare con il mist, l’apparecchio che controlla l’umidità
della serra, se conosco i diversi tipi di substrato. Non voglio proprio
mettermelo in testa. A nessuno interessa la competenza dei lavoratori. Nè
quando fanno gli operai, nè quando fanno gli impiegati. D’altra parte era
scritto ben chiaro anche sui cartelli di ricerca lavoro che ho visto
all’ingresso del garden center: è richiesta passione, ma non competenze
specifiche. Il lavoratore ideale, a qualsiasi livello sia, non deve sapere.
Deve essere solo disponibile. Il lavoratore ideale è colui che fa senza porsi
domande. Ha imparato dalla mamma a essere un bravo bambino ubbidiente. Se
occupa tutto il giorno il suo cervello con altri pensieri, va bene. Ma se non
li ha del tutto è ancora meglio.
Provo a sottolineare ancora l’importanza di vendere bene una
pianta accompagnandola con informazioni accurate, che ne sottolineino l’unicità
e le caratteristiche. Ma mi sto scavando la fossa. Dunque saluto, arrivederci.

Passo a vedere il pipistrello. E’ sotto al sacco, ma è
sveglio. Si accorge di me. Entra in vibrazione, ma è tranquillo e attento.
Scambio onde cerebrali. Siamo in gabbia entrambi. Abbiamo cibo, salute e
qualcuno si occupa di noi. Ma non possiamo certo volare. Non si fa.  A me tornava fosse vietato vendere questo tipo
di animali. Ma quando torno a casa, e chiamo la forestale, mi rivelano che
conoscono bene quel garden center e che è tutto regolare.

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Scelte imprenditoriali – Diario di una giornata in redazione 10 ottobre 2008

Oggi vengo convocata per il lancio di un nuovo progetto. Si tratta di una collaborazione con un provider, una partnership che potrebbe portare, più che soldi, contatti e visibilità. Benissimo. Finalmente qualcosa si muove e soprattutto finalmente qualcuno mi chiede di fare qualcosa di preciso e partecipare a un progetto. Entro nell’ufficio e la persona che sta organizzando il nuovo servizio mi accoglie trionfante.  
Mi dice: hai sentito? Tramite il nostro network abbiamo messo in vendita un nuovo gadget elettronico, un vero gioiello. Interessante, rispondo io. E chiedo di cosa si tratti. E’ un oggetto assolutamente inutile,  ovvio. Ma la cosa interessante è il prezzo: 300 euro. Siamo dunque al di fuori di una offerta popolare, che incontra le grandi masse, che soddisferà quindi migliaia di consumatori, come i cd, i puzzle, e i mille giochi che finora sono stati messi a disposizione d qusta casa editrice. Il mio cervello non ce la a a fermarsi. E fin qui nessun problema. Il problema è invece la lingua: non riesce a stare ferma neppure quella. Dunque faccio notare che mi sembra strano che una casa editrice investa risorse per alla vendere  un oggetto, manco si fosse trasformata in un negozio di giochi. La risposta è lapidaria: "ma ti rendi conto?" dice il mio interlocutore, "siamo in un momento difficile, e tutto serve per fare cassa e parare i debiti spesi nel fare i giornali".
Sto zitta (per fortuna) e intanto elaboro la nuova informazione. E visto che domani, finalmente, avrò il  mio primo vero colloquio con il garden center presso cui ho fatto richiesta di lavoro, mi viene da fare un paragone floreal economico.
Facciamo finta che il nostro editore in realtà sia un agricoltore che decide di aprire una serra per vendere fiori. All’inizio il mercato è tranquillo. Si fanno introiti, ma non ci si arricchisce a dismisura. A un certo punto qualcosa si muove e inizia un piccolo boom. I consumatori che richiedono fiori e piante aumentano, ma purtroppo aumenta anche la concorrenza. L’agricoltore decide dunque di puntare in alto. Cerca personale qualificato, capace di rispondere anche alle domande del cliente più esperto. assume un gruppo di dipendenti che sono appassionati botanici, perché ritiene che solo così, vendendo merci ma anche contenuti, potrà avere la meglio. Tutto infatti va bene per molti anni. Poi però il mercato si fa più aggressivo. L’interesse da parte dei consumatori è sempre alto, ma c’è la crisi, e i consumi sono in  flessione. Si percepiscono evidenti variazioni. L’agricoltore ha due scelte: puntare, come hanno fatto alcuni, ancora di più sulla qualità, ampliando l’offerta di contenuti e sottolineando le sue specificità. Oppure ampliare quella delle merci, vendendo non più solo piante, ma anche altro: mobiletti, attrezzi, perfino elettrodomestici. L’agricoltore non ci sa fare molto, perché ha sempre e solo lavorato nel settore florovivaistico, ma ci prova lo stesso. Sceglie la seconda via e la trasforma pure in una autostrada. La diversificazione non basta e il suo ormai gigantesco negozio punta solo a fare cassa con qualsiasi tipo di prodotto. A questo punto i dipendenti scelti perché erano  esperti di fiori si sentono chiedere di smettere di fornire i loro preziosi consigli alla clientela, pera puntare invece alla vendita di qualsiasi oggetto. Quando protestano, gli viene detto che sono tempi di crisi e che si devono adattare. Anzi. L’agricoltore fa sapere che nella serra ci sono troppi esuberi, e che qualcuno dovrà essere licenziato. Adesso, l’importante non è affiliare un cliente spiegando che sul balcone a nord l’oleandro non può prosperare, ma vendere il gadget da 300 euro. Un’operazione semplice e pulita, che prevede solo un acquisto e una rivendita.  
Torno a me. E alla strana sensazione che ho provato quando ho visto il sorriso entusiasta dell’impiegato del settore commerciale della mia casa editrice, che mi spiegava la nuova strategia aziendale. E penso al tempo sprecato a leggere dibattiti sulle teorie dell’evoluzione umana, a vagliare notizie scientifiche per essere in grado di sgamare il pacco, da quella che vincerà il premio Nobel. Il tempo inutile che ti porta a verificare un dato, prima di metterlo nero su bianco, o a intervistare un esperto per evitare di scrivere ingenuità. E quello che ti porta individuare un problema e a non mollarlo, finchè non scopri perché c’è, chi lo ha generato, come si può fare per evitarlo. E a fare in modo che la gente, che si suppone abbia meno tempo di te per fare queste cose, possa scoprire e capire.
I tempi sono duri. Non lo avevo capito. E in questo momento non c’è tempo per i fronzoli. Vendere noon costa fatica, tranne quella del trasferimento della merce. Quasi quasi apro un account su e-bay. Chissà che il mio editore, se scopre che so vendere bene, non mi dia un aumento di stipendio.

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Domande e risposte – Diario di una giornata in redazione 7 ottobre 2008

Sabato mattina, ore dieci. Appuntamento a Paderno Dugnano presso un garden center. Il posto è enorme. Cercano un sacco di persone. magari questa volta ce la faccio. Chiedo alla reception informazioni per il colloquio, ma la ragazza mi guarda e mi fa: veramente prima deve compilare solo un questionario. PoOi eventualmente, se è adatta, la chiamiamo noi per un colloquio vero e proprio. Se sono adatta? Forse devo ripassare Charles Darwin quando parla della fitness (l’adattamento) come motore propulsore dell’evoluzione. Io ho bisogno di evolvermi. Dunque prendo in mano il blocchetto che mi viene consegnato. prima compilo una serie di dati anagrafici vari, che chiedono quanti figli ho se sono sposata o meno, se uso la macchina e la moto. Compilo tutto meccanicamente e faccio per restituire, quando un vicino, candidato pure lui, fa una domanda per chiedere un dettaglio su una parte che non avevo affatto visto, la vera perla per cui ero stata chiamata. Si tratta di un foglio enigmatico con tre risposte possibili e dei pallini vuoti. Accanto alle serie di papllini i numeri da 1 a 200. Guardando meglio scrpro che sotto i fogli anagrafici c’era un questionario con 200 domande. E io devo rispondere annerendo i pallini in base a se sono d’accordo o meno con quanto affermato. L’ultima volta che ho fatto una cosa del genere si trattava di una inchiesta Che l’Unione Europea stava facendo a una serie di esperti del settore, sui possibili impatti e sull’accoglienza della gente alle ogm, gli organismi geneticamente modificati. Era prima del 2000. E è stato grazie a monitoraggi di questo tipo fatti in tutta Europa, che il parlamento ha capito che non sarebbe stato facile far digerire il libero mercato di questo tipo di alimenti.
Qui il problema è assai più terra a terra. E il futuro in ballo è esclusivamente il mio. Devono capire se sono la persona giusta da mettere dietro a una cassa, oppure davanti a una zolla di terra, oppure a fare informazione su come si trapiantano i gerani, o ancora a organizzare la megafesta del ciclamino. Già. Ma qual è l’ideale di questa persona? Come deve essere? Non ho letto il manuale e mi sento impreparata. Dunque decido di improvvisare, con mille dubbi. La prima domanda ti fa capire subito dove stai: Fai affermazioni avventate, o accuse, delle quali poi ti penti? Mi verrebbe da rispondere mai. Ma poi, se per caso dici la verità e scopri che non avresti dovuto dirla, che scusa potrai mai tirare fuori? passo oltre. Alla numero 55 mi viene chiesto: Alla gente piace stare in tua compagnia? E vado di nuovo in tilt. Se rispondo di si, potrei essere la persona perfetta per un lavoro in team. Ma chi ha detto che è questo che vogliono? forse invece potrebbe essere pericoloso. Se sto troppo a fare comunella infatti, chi pulisce le foglie secche, o toglie le gemme al basilico in fiore? E poi a me piace stare in compagnia ma mi piace esattamente allo stesso modo stare in solitudine. In cima a una montagna preferisco stare da sola. Altrimenti perdo i dettagli della luce, delle nuvole, non riesco ad ascoltare la lingua delle pietre, e neppure quella del mio cuore. la stessa cosa mi può succedere al cinema, o sotto un ponte della tangenziale. ma se mi sposto poco più in là, sui marciapiedi, allora preferisco stare in compagnia. E con gli altri sto meglio in un bar, a cena,in casa in generale.
Procedo veloce per non pensare troppo. La 86: Ti trovi spesso a fare le cose tutte in una volta? Che domande no. Ma anche si. Quando sei al computer con otto finestre aperte come consideri questa operazione? Una o tante? E loro, loro lo sanno che la gente usa anche il computer, o si stanno rivolgendo solo a un tipo di salariato manovalante? Mah. La 118 mi fa schifo: Detesti l’idea di avere a che fare con un collega gravemente ferito? Detesto? Cosa intendono dire? Che mi metto a strillare "odddio" e fuggo come l’attrice del film dei Monty Python Il senso della vita; quando il ciccione esplode dichiara scusate ma ho le mestruazioni davvero abbondanti e devo andare a casa? Vogliono vedere quanto sono in grado di restare indifferente (e capace di non fare denunce) o viceversa quanto mi sappia prodigare per aiutare gli altri? Passo alla successiva. Alla 130 mi viene chiesto: Il tuo ambiente di lavoro ti sembra vago o irreale? Vabbè, se era un modo per scoprire se mi faccio le canne, tanto valeva fare la domanda diretta no? Rispondo che mi sento sempre pronta e presente, Lucida come riesce a esserlo un insigne matematico, nei momenti di pausa tra uno sballo e l’altro.
la 165 segue un tema ricorrente: ci sono almeno una decina di domande dello stesso tipo in tutto il questionario. E il tipo è: Hai rimpianti per passate sventure e fallimenti? Fallimenti? Sono forse un imprenditore? O forse sono uno che gioca ai cavalli e non si è ancora accorto che tutti i sistemi di scommessa, dal lotto al totip, se vanno avanti è solo perché ci guadagna esclusivamente chi organizza la cassa? No no. Forse devo pensare ai fidanzati che ho cercato di conquistare. ma non può essere. Ai datori di lavoro le storie d’amore preoccupano molto, perché portano distrazioni, ma non porrebbero la domanda in questi termini. Almeno non credo. Ma poco più avanti ci riprovano: Ti danno fastidio i fallimenti passati? Aridajje.
La 170 mi lascia di stucco: Puoi lasciare che qualcuno finisca le famose "ultime due parole" nei cruciverba, senza interferire? Ha. Prima di tutto io non amo giocare ai cruciverba. Devo esserci costretta da qualcun altro che sta giocando e che dunque probabilmente avrà piacere di finirsi il suo cruciverba. Io non sapevo neppure che ci fosse una sindrome "le ultime due parole", dunque la prossima volta che mi capita di aiutare qualcuno, quando sta per finire mi allontano.
E poi, cosa significa? Se rispondo di no, forse penseranno che io sia una che vuole sempre avere l’ultima parola, appunto. Dunque una pessima pedina. meglio rispondere di si dunque. Si fa la figura delle persone accondiscendenti. La 177 va al sodo: Qualcun altro potrebbe pensare che tu sei veramente produttivo? prima di tutto, mi viene da notare, ci vorrebbe un congiuntivo. Non "sei veramente produttivo", ma "sia veramente produttivo". E poi chi è quel qualcun altro? In ogni caso io sono veramente produttiva, oppure non lo sono affatto. E non mi preoccupo dell’interpretazione che potrebbero fare altri. Dunque? Scopro che mi ero persa la numero 3. Mi sa che l’avevo rimossa. Dice: Sfogli orari ferroviari, elenchi o dizionari solo per divertimento? Cos’è. Un test per verificare l’autismo recondito? Dunque se devono mettermi dietro a un terminale potrebbero essere felici? O vogliono solo sapere se ho comportamenti maniacali? Dunque perché non chiedere se fumo, mangio cicche, attorciglio i capelli.
La 198 è a due passi dalla fine. Ti lamenti molto per le condizioni a cui devi far fronte nella vita? No. No se limitiamo l’indagine a mangiare, allevare figli, recuperare i soldi per la spesa,i libri, il computer, i libri e gli strumenti musicali. Si se per poter lavorare sei costretto a rispondere a questionari di questo tipo…

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Flessibililtà – Diario di una giornata in redazione 3 ottobre 2008

"Nelle imprese che editano più testate, anche multimediali, possono essere costituite unità produttive
redazionali aventi la funzione di fornire contenuti informativi giornalistici, equiparate a testate nel
contesto delle previsioni di cui al comma successivo. Nel rispetto dei poteri dei direttori chiamati a
garantire l’autonomia delle testate l’opera del giornalista potrà essere utilizzata, su richiesta dei
singoli direttori interessati in ogni unità produttiva e per qualsiasi prodotto editoriale edito
dall’azienda, compresi quelli multimediali, nonché per le testate edite da imprese controllate dalla
stessa proprietà (art. 2359 C.C.)".


Questa frase è contenuta nella proposta di contratto che la Fnsi (il sindacato dei giornalisti)
presenterà alla Fieg (la federazione degli editori) nel corso della lunghissima trattativa per il
rinnovo del contratto giornalisti.
Non è una frase neutra, non riguarda una asettica organizzazione del lavoro. Travalica il senso della
produzione di contenuti e li equipara alla produzione di una merce. Forse perché l’informazione che
viene fatta oggi in Italia, non è altro che un veicolo pubblicitario.
Dunque proviamo a fare una simulazione. Io, che come è noto attualmente ho ruolo completamente
svuotato, vengo spedita all’unità produttiva redazione della mia casa editrice, che produce una decina
di testate che vanno dalla divulgazione scientifica, alla moda, alla tecnologia. A prima vista potrei
essere attratta da questa prospettiva: finalmente una sitazione dinamica. Posso immaginarmi che mi
troverò a scrivere, ma anche a realizzare un sito web, e di sicuro non sarò costretta a rimanere sempre
su un unico argomento. Ma dopo qualche mese potrei iniziare a vedere l’enorme muro che mi si sta

parando
davanti.
L’opera del giornalista potrà essere utilizzata per qualsiasi testata, dice la proposta di contratto.
In una interpretazione utopica e positiva, potremmo pensare che io, libera mente di un mondo
meraviglioso, scriverò una inchiesta sulle organizzazioni che aiutano i rom, senza necessariamente
pensare al contenitore che la accoglierà. I direttori delle testate dell’editore che mi ha pagato lo
stipendio mentre facevo le mie ricerche, faranno a gara per aggiudicarsi il mio articolo. E io sarò
costretta (questo è l’unico problema) a fornirlo a chi lo richiede, comprese le testate multimediali.
La realtà potrebbe però essere un’altra. Io sono seduta al tavolo e sto leggendo le rassegne stampa
delle notizie di attualità scientifica. Un lavoro che ho sempre fatto, visto che da molti anni faccio
il giornalista scientifico di mestiere. Ormai so dove andare a cercare, capisco il peso di una notizia
in funzione della fonte che la emette, so se vale la pena di parlarne o di tralasciarla, e soprattutto,
conoscendo il linguaggio e la materia, sono in grado di sgamare l’eventuale errore. per intenderci, a
me non potrebbe capitare di fare l’errore banale che i media italiani hanno fatto in questi giorni,
dichiarando che nel latte cinese c’era la melanina (il pigmento che ci regala l’abbronzatura) e non la
melamina (una sostanza sintetica e tossica che alza artificialmente la percentuale delle proteine di un
alimento). Arriva il direttore e mi chiede di scrivere un breve articolo sui teen ager, per il giornale
di moda. Trovo divertente la proposta e accetto. Mi viene dato un materiale. ma io non ho mai scritto
di questi argomenti e non so da dove proviene. Ho poco tempo e non voglio stare a fare storie. prendo

il materiale e scrivo. Un’altra collega, che si occupa sempre di moda, mi fa notare che, senza saperlo,

sto scrivendo una marchetta. Quell’articolo è stato chiesto a me e non a lei, per poter pubblicare una
notizia che serve da rinforzo a una pagina di pubblicità. Domani a lei chiederanno di scrivere di
scienza, e in particolare di medicina. Perché i lettori, leggendo quella notizia, abbiano voglia di
comperare l’ultimo analgesico da urlo (di felicità si intende).

E così quella che poteva sembrare un onesta soluzione, una proposta di riorganizzazione indispensabile
in un momento difficile, e per un settore in profonda trasformazione, appare come un modo per
modificare ancor più profondamente il concetto di informazione.
La catena di montaggio non è stata inventata oggi. Oggi abbiamo inventato la catena di montaggio per i
media. Perfetta, ben oliata, procederà a ritmo incalzante. permetterà l’alienazione del lavoratore fin
qui più riottoso ad essere espropriato del proprio prodotto, il lavoratore intellettuale. E come la
catena di montaggio fece ai primi del novecento, consegnerà totalmente nelle mani degli industriali la
produzione della merce, che potrà essere manipolata e gestita come si vuole inseguendo logiche
prettamente commerciali.
Se mi danno uno stipendio, si potrebbe pensare, perché non fare esattamente quello che  mi chiedono.
Perché oltre che stomaci che devono mangiare ed esseri riproduttori che devono procreare, rivendichiamo
di essere anche persone, cervelli, cuori. Nella catena di montaggio l’operaio veniva assimilato alla
macchina, e diventava macchina a sua volta. E la storia del sindacato ha tracciato un lungo percorso di
lacrime e sangue su questo aspetto. Ma forse è vero che il tempo è passato. Il lavoratore del pensiero
è diverso può essere convinto con le buone, o con le cattive, in modo più facile e occulto.

 

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Scafisti – Diario di una giornata in redazione 1-2 ottobre 2008

Il meccanismo è molto lineare: il lavoratore viene svuotato
delle sue capacità, viene depresso, viene azzerato. ma viene lasciato dove sta.
Evidenti minacce non ci sono. Serpeggiano, ma non si vedono. Dopo aver ricevuto
questo trattamento, il lavoratore è ancora più schiavo. Non è felice di
esserlo, ma lo è. E lo è per un motivo ben preciso: non avendo più fiducia
nelle sue capacità professionali, perché non ha più avuto occasione di metterle
in pratica, ha il terrore di perdere il posto di lavoro. Un terrore atavico,
radicato fin nel profondo dei profondi. Un terrore che impedisce di considerare
che quando si è assunti a tempo indeterminato, e l’azienda ha bilanci in
positivo, è praticamente impossibile essere licenziati.
Sorge spontanea la domanda: perché tutte le volte,
persino di delegati sindacali, invocano alla calma, di non esagerare con le
azioni, e sventolano lo spauracchio con leggerezza? Mah. Forse hanno comunque
una ridente carriera da tutelare. Forse gli mancano le basi per capire la situazione
in cui stanno operando. Forse sanno che la gente intorno a loro parla, ma poi
procede in tutt’altro modo. Io di solito agisco diversamente. Dico quello che
penso. Butto il sasso nello stagno. E il risultato è che la gente si aspetta
che faccia sempre io la puntigliosa, quella che si contrappone, quella che
esprime il disagio generale.

Questa volta ho cercato di stare zitta. L’amministratore
delegato ha organizzato due riunioni: una con i giornalisti, l’altra con i
dipendenti amministrativi, separatamente. Non sia mai che queste due categorie
di lavoro inizino a collaborare insieme.
In tutte due i casi però ha vestito gli stessi panni
stazzonati dell’uomo che non aveva altre scelte e, attenzione alle parole,
dell’uomo che non AVRA’ altre scelte. Per il bene comune si intende. Il
paragone con gli scafisti che buttano a mare la persona più pesante, per fare
in modo che la barca non affondi, lo lascia impermeabile. Lui soffre, noi non
capiamo.
Può darsi. Noi capiremmo anche. Noi avremmo, o meglio le
abbiamo avute, delle idee da proporre per alleviare le fatiche. Idee che
prendono in considerazione come è cambiata la società in questi anni, come sono
cambiati i media, ma anche come è cambiato il rapporto delle persone nei
riguardi della conoscenza.
Non servono. Nei dorati anni ottanta (e novanta), le riviste
vendevano solo perché, al pari di una maglietta di marca) fornivano uno status
al lettore. Il lettore ha dimostrato più volte di non aver bisogno dei brand.
Il lettore ha dimostrato più volte di non aver bisogno dei giornali. Gli
aspetti glamour dell’informazione si trovano dappertutto, dal catalogo trendy
al blog. Il lettore si evolve. Le riviste no. E deve continuare ad acquistare a
3-4-5 euro pezzi di carta da mettere sul tavolino. 
Inutile far finta di non capire: è colpa dei lavoratori se
le baracche mediatiche vanno male. Sono le tutele del lavoro la vera mela
marcia che non consente alle brillanti aziende di prendere spunto e partire
verso altri lidi. Sono gli eccessi di protagonismo di chi riflette su che
informazione sta trattando e per chi, il vero problema.
E il risultato è sotto agli occhi di tutti: capitani di
azienda che credevamo senza scrupoli, stanno mostrando altre facce, quelle di
uomini distrutti dal senso di responsabilità, imprigionati nel loro ruolo,
costretti ad agire solo perché i lavoratori non sono in grado di capire che è
necessario e indispensabile fare delle scelte per assicurare i profitti. Sono
in effetti molto diversi dai padroni delle ferriere. Quelli imponevano le loro
scelte. Questi invece le pretendono. Perché tutti, proprio tutti, hanno il
diritto di agire senza vincoli, senza cavilli, senza freni. Siamo nella
stagione della libertà no?

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No ai licenziamenti – Diario di una giornata in redazione 25 settembre 2008

 

Un bel video su un presidio che si è tenuto mercoledì e giovedì davanti alla sede della Gruner und Jahr/Mondadori, casa editrice di Geo, Focus, Focus Domande e risposte, Focus Extra, Focus Storia, Focus Junior, Pico, Jack, Top Girl. Due giorni di proteste contro un licenziamento fatto al di fuori di ogni regola.

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