Collaborazioni d’oro. Diario di una giornata di redazione 16 settembre 2006

Come al solito la tentazione di portare qui al lavoro l’uncinetto, la maglia, o un bel puzzle è forte. ma finora mi sono astenuta, anche perché amo fare anche altre cose. Nell’Attesa Totale che si compiano gli unici quindici giorni in cui lavoreremo al giornale (grazie alla grande macchina organizzativa che governa il nostro lavoro), la conversazione fluisce su vari argomenti. E se sostenere la pena della collega fermata al check in di un volo perché in possesso di un biglietto con il nome sbagliato può essere noioso, la mia attenzione invece viene finalmente risvegliata da un altro dibattito: quello sulle collaborazione interne. Le collaborazioni interne sono articoli (ma anche grafica di pagine, o ricerche fotografiche) che vengono fatte dai redattori di altre testate della stessa casa editrice. Il contratto di lavoro giornalistico ha sempre sottolineato l’importanza dell’appartenenza di testata. Se uno lavora per un giornale, il suo tempo lavorativo deve essere assorbito esclusivamente per quella testata. Può sembrare un provvedimento sbagliato, ma in realtà non lo è, almeno non del tutto. Fare in modo che una persona lavori per un certo ambito e non possa essere spostata a seconda dei desideri dei responsabili infatti è una forma di protezione del lavoro intellettuale. Sapiamo bene a cosa può portare la mercificazione degli intelletti.
Insomma, il giornalista normalmente non dovrebbe creare un pezzo finito che poi può essere venduto a chiunque. Dovrebbe mantenere un senso di appartenenza a quello che fa, dunque anche un controllo. Dovrebbe, almeno in teoria, informarsi, avere idee, scrivere, pensare, prendere contatti, occupare la propria mente. E se lavora per un giornale, si suppone che il suo tempo mentale sia riservato a quel progetto e non ad altri, almeno fin tanto che è in redazione. Tutto questo in Italia non so neppure se è mai avvenuto. C’è qualche esempio sporadico, ma nulla di più. In ogni caso negli utlimi anni il giornalismo è diventata una attività commerciale, al soldo della politica di palazzo o della pubblicità.
Ho sempre pensato che se il lavoro ti piace e ti prende, è difficile staccarsene anche a fine giornata. Però poi è vero, lo ammetto, che anche a me è capitato di fare collaborazioni per altri. Quando ho lavorato per giornali dove il contenuto era importante ho sempre cercato di differenziare, scrivendo per esempio rubrichette su tutt’altri argomenti, giusto per far tornare gli equilibri economici. Di notte, ovviamente. ma erano altri tempi.
Per rispettare la prevalenza di appartenenza a una testata, e per evitare che il giornalista venga fatto lavorare una volta per lo sport, una volta per il femminile, una volta per chissà cosa, si è fatto quindi in modo che se il  giornalista collabora per un altro giornale della stessa casa editrice, il suo articolo viene pagato a parte, come collaborazione esterna, e in quanto tale, si suppone, fatta fuori dall’orario di lavoro.

Qui dove lavoro il discorso è del tutto diverso. Le scalate di carriera sono sempre più difficili, e gli aumenti anche. Così i direttori hanno trovato un brillante escamotage per aumentare lo stipendio ai Migliori. E’ una formula alchemica di non facile comprensione, una situazione particolare, dovuta all’elaborato piano editoriale che è stato messo in atto, e che prevede una testata madre forte e una serie di consorelle, tutte dipendenti dallo stesso direttore. Lo stesso capo dispone liberamente di diversi spazi su cui far lavorare le varie persone. I Fortunati percepiscono uno stipendio per il giornale Numero Uno, e  occupano contemporaneamente il proprio tempo (con l’avvallo del direttore) per scrivere (dunque guadagnare) per il giornale Numero Due. In più ci sono poi anche altre testate governate da altri direttori, che agiscono in base a varie simpatie. Alcune persone, grazie a questo intelligente trucco, sono riuscite a raddoppiare i loro stipendi, pur restando redattori ordinari, senza promozioni, senza incentivi, senza apparenti riconoscimenti. L’editore sa, il direttore sa, il lavoratore sa. Una formula perfetta.
Lo so. Potrei sembrare reazionaria. Ma questo sistema non mi è mai piaciuto. Chi ci perde? Il lavoratore Non Bravo, Non Rispettoso, Non Omologato. Con tutti questi collaboratori a portata di scrivania, e ancora più disponibili e controllabili di quelli esterni, è infatti estremamente semplice lasciare senza lavoro chi non se lo merita. E che ovviamente non avrà neppure aumenti e passaggi di carriera. Il risultato è perfetto. E apparentemente nessuno può criticare questa situazione. Persino i rappresentanti sindacali non intendono intervenire. Se salta fuori che non lavoriamo tanto, e che abbiamo tempo per scrivere nelle ore di lavoro, potrebbero ridurre i posti, è la risposta.  
Sarà. Forse non ho capito nulla. Questa strategia potrebbe essere la risposta alla richiesta di qualità nei giornali. Ieri, su Affari e finanza, il supplemento economico di Repubblica, c’era una paginona intitolata "Il grande freddo dei giornali Usa, tutti su Internet per sopravvivere". Dove si preconizza, come come viene ripetuto troppo spesso ormai, la fine della carta. Si salveranno solo i giornali di qualità eccelsa. E infatti, riporta l’articolo, non sono affatto preoccupati i padroni di Wall Street Journal (Murdoch), Times (Slim Helù Aglamaz) e New York Times. I miliardari americani Sandler, hanno avuto il coraggio di finanziare ProPublica, una testata indipendente che dovrebbe dare spazio al giornalismo di investigazione. I loro servizi, preparati da una redazione di 27 persone e da uno stuolo di collaboratori, potranno essere usati da giornali e radio, gratuitamente. Auguri.

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