Fuochi artificiali – Diario di una giornata in redazione 17 settembre 2008

A volte nelle case editrici accadono cose che nessuno avrebbe potuto prevedere: due direttori fatti fuori in un colpo solo. E che possono anche sorprendere positivamente, soprattutto se fino a quel momento i capi si sono mossi invece con estrema lentezza e indecisione. In fondo perché continuare ad accanirsi con le basse leve, se eliminando un alto stipendio si eliminano anche alti costi? I direttori sono in effetti le uniche figure che possono essere licenziate in un giornale che appartiene a una casa editrice con bilanci in positivo. Hanno però dei consistenti buon uscita, contratti capestro che portano a rimandare il più possibile l’estrema decisione. E per questo rimangono anche se le vendite stentano, le redazioni soffrono, le spese non vengono abbattute. Questa volta è andata diversamente. Forse contagiati dal morbo Lehman Brothers (l’effetto emulazione è ovunque) i responsabili amministrativi hanno preso l’estrema decisione.
Le riviste in questione non marciavano. E avranno destini diversi. Due casi interessanti, per motivi diversi.
Una delle due verrà diretta da una giovanissima giornalista, finora semplice redattore e attualmente in maternità. Una carriera brillante della quale si potrà dire solo in futuro. A volte anche le persone migliori, quando diventano direttori, si trasformano. Purtroppo in quel ruolo poco conta la capacità di raccontare, avere idee, o intuito giornalistico. Sono elementi importanti, ma nella ricetta ci sono altre cose che pesano di più. Prima tra tutte l’organizzazione del lavoro degli altri. Questo significa saper tagliare dove ce n’è bisogno, fare promesse che potrebbero non essere mai mantenute, non farsi prendere in pugno dalle persone di cui si ha bisogno, e senza le quali il giornale non può uscire, mantenendo un rapporto di complicità distante. Poi c’è il rapporto con l’editore. Fare il direttore oggi non è come una volta. Non si può fare di testa propria. Le copertine, a volte perfino il menù dei servizi che compaiono nel giornale, tutto viene deciso con l’editore. E il direttore si è sempre più trasformato in una sorta di caporedattore, che deve seguire precise direttive. Quali? Quelle imposte dal marketing, ovviamente. Il risultato è che gli argomenti vengono impostati seguendo criteri strettamente commerciali. Per esempio si farà in modo che non siano significativi, ma solo attraenti per la maggior parte del pubblico possibile.
Yochai Benkler in La ricchezza della rete, a tale proposito parla chiaro: gli editori non sono interessati all’informazione in se e per se. Quello che conta è incontrare il gusto più mediocre, non altro: è l’unico in grado di accontentare tutti. Per questo motivo, sostiene, è inutile aspettarsi che i prodotti commerciali sposino l’alta qualità, o decidano di puntare su contenuti seri. Non venderebbero nulla. E cita un grande editore che sosteneva che nessuno comprerebbe un giornale che gli fa andare di traverso la colazione.
Al direttore viene infine chiesto di non fare lo snob quando gli si chiede di infilare le citazioni dei prodotti tra una riga e l’altra. E neppure di protestare se il rapporto tra il numero di pagine del giornale e quello della pubblicità è decisamente sbilanciato. Non solo. Gli si chiede anzi di aiutare in prima persona l’ufficio marketing, sviluppando iniziative che possono portare nuovi fondi, oppure nuove pagine di pubblicità. Insomma, gli inviati speciali, quelli che fanno inchieste o reportage, ma anche i giornalisti specializzati, fanno un mestiere completamente diverso da quello del direttore. E infatti i due mondi spesso collidono.
Per l’altra testata potrebbe essere previsto un percorso diverso. Fa già parte di una rete internazionale, si assimilerà ancora di più. Un raro caso di globalizzazione totale dell’editoria. La stessa bellissima polpetta viene preparata per una decina di Paesi, da una redazione centralizzata.  Poi viene tradotta nelle varie lingue, da redazioni finalmente ridotte all’osso. Si sa che ormai non ci sono più differenze nazionali, che apparteniamo a una macroarea omogenea. E lo sanno/vogliono soprattutto gli investitori pubblicitari, le grandi marche di scarpe, automobili, abbigliamento, orologi, profumi, che vendono le stesse merci in tutto il mondo. In questo modo pagheranno un interessante forfait che gli assicura una presenza allargata.
Le giacchette tutte uguali dei cinesi erano noiose. Adesso abbiamo tutti la stessa cintura sui pantaloni. Ma è diverso. Ci piace. E poi io la metto sui fianchi, la mia amica sulla pancia, un’altra la usa a tracolla…..  

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