Rabbia. Diario di una giornata in redazione 25 maggio 2009

Abbiamo detto no al contratto, abbiamo urlato no al contratto, abbiamo scritto documenti.
L’urgenza con cui gli editori hanno applicato il contratto prima ancora che fosse siglato
definitivamente, parla più chiaro di mille dibattiti.
Ed eccoci qui, sul campo, protagonisti di questa storia che non abbiamo voluto e non vorremo mai.
E mentre sui blog e nelle mailing list si spercano le dichiarazioni, le denunce, le sorprese, la
macchina infernale procede, sicura della sua potenza, splendida nella sua invincibile forza,
quella dei padroni del vapore.

Da noi hanno voluto fare i primi della classe, e adottare per primi tutti i provvedimenti che il
fantastico contratto gli permetteva. Così hanno fatto partire subito gli inserti speciali, i
numeri extra, le pagine in più, dopo aver ufficialmente impedito di fare gli straordinari
ovviamente, e dopo aver anche avuto il coraggio dei deficienti, ovvero quello di dichiarare che in
fondo la qualità non è prioritaria in questo momento. Sarebbe bello che i lettori lo
sapessero….noi spriamo sempre che se ne accrogano da soli, ma questo fenomeno sta capitando
troppo lentamente….

Così anche io mi ritrovo qui. A dover abbandonare, o fare nei famisi "ritagli di tempo", l’unico <
lavoro che negli ultimi dieci anni mi sembrava desse un senso al venire qui in ufficio, un lavoro
ovviamente sul web, per tornare a lavorare sulla carta. Dove per "sulla carta" si intende
letteralmente questo. I data base sono uno strumento fondamentale. ma qui non sanno neppure che
esistono. Eppure i prossimi giornali saranno tutti fatti con ritagli riciclati da cose già
pubblicate, che sarebbe stato bello poter recuperare con un semplice click.

Rabbia. Non provo nient’altro. Non c’è spiegazione. Non la si può più trovare ormai, quando sai
che stai facendo un lavoro male, inutile e per di più che assicura l’uscita di un prodotto che in
fondo ti augureresti che venisse trascurato dai lettori. perché in fondo credi ancora ll’utopia
dell’intelligenza.

Rabbia, per aver speso anni a cercare di mettere insieme informazioni, di scardinare meccanismi di non sapere/potere.
Quando l’unica cosa che contava era invece scrivere "lore ipsum dolor", fare il conto delle
battute e trovare una foto mozzafiato.

Rabbia, perché il mio tempo viene perso, quotidianamente, ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, per
cose che non hanno nessun senso. Forse neppure quello di fare guadagnare dei soldi a qualcuno.
Potrei forse fare solo una cosa. Raggiungere i libri viventi sulla riva del fiume, e convincerle
loro e Guy Montag a tornare in città, rubare elmetti e pompe incendiarie ai pompieri che uccidono
i libri, per usarli invece contro tutti i giornali. Poi potremo tornare sul fiume di nuovo e
aggiungere ai romanzi le storie di tutti i giorni, da passare di bocca in bocca, e da arricchire
con le esperienze dirette, le opinioni, senza filtri, senza economie, senza mercati.

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Co0ntratto giornalisti: il no che avanza. Diario di una gironata in redazione 3 aprile 2009

Il no al nuovo contratto siglato tra Fnsi e Fieg dilaga nelle redazioni. Oggi a Roma i cdr esprimono il loro parere e votano. Poi ci sarà la consultazione tramite referendum. Il parere di tutti, nella redazione in cui lavoro, ma anche in altre, è che non cambierà nulla. Alle assemblee dei gironalisti in cui si doveva decidere come votare è stato presentato il soltio bel babau: attenti, se non diciamo di si, il contratto salterà, ci daranno quello del 1959, o addirittura non ne vedremo mai più uno.

In fondo non sarebbe poi così male: di un contratto che smantella definitivamente il lavoro, introducendo flessibilità al 100 per cento e 24 ore su 24, possiamo tranquillamente fare a meno

Qui le mozoni approvate dalle redazioni di Repubblica e della Gruner und Jahr Mondadori

I giornalisti di Repubblica, pur riconoscendo alla segreteria della
Federazione nazionale della Stampa il difficile lavoro svolto nel corso
delle trattative con la Fieg per il rinnovo del contratto di lavoro dei
giornalisti, chiedono con forza al sindacato di riaprire il confronto,
ritenendo inaccettabile, dopo quattro anni e ben 18 giorni di sciopero,
l’ipotesi di accordo raggiunta la scorsa settimana.

Non si tratta solo di reclamare particolari aumenti salariali. Le
richieste degli editori, peraltro poco collegabili alla situazione di
crisi in atto, puntano esclusivamente in molti casi allo smantellamento
di alcuni diritti fondamentali, imponendo un quadro normativo
evidentemente finalizzato a limitare nella sostanza le libertà dei
giornalisti. Per non parlare della prospettiva di un prepensionamento
di massa che preoccupa la categoria per come potrebbe essere regolata
in base all’accordo.

Alla redazione non sfugge la dimensione
della crisi economica che sta attraversando anche il settore
dell’editoria e i giornalisti non intendono sottrarsi alle sfide
offerte anche dalle nuove tecnologie, ma proprio per questo ritengono
indispensabile garantire ai colleghi tutti gli elementi, a partire
dagli automatismi come gli scatti di anzianità, che garantiscono la
loro indipendenza e autonomia nella professione. Solo così sarà
possibile superare un momento così difficile.

Spetta al sindacato fare rispettare questi diritti e non metterli in discussione.

Per
questo invitiamo la Federazione a riaprire il tavolo con la Fieg, con
senso di responsabilità e realismo anche verso la sua base, impegnando
in questo senso in maniera vincolante il Cdr di Repubblica che
parteciperà il 3 aprile alla Consulta nazionale dei Cdr.

Resta ferma la opportunità per tutti i giornalisti di esprimersi con il referendum sul contratto.

Approvato dall’assemblea di Repubblica il 1° aprile 2009
con 114 voti favorevoli, 53 contrari, 19 astenuti

—————————————————————————————– 

Le redazioni della Gruner und Jahr Mondadori desiderano esprimere alcune
critiche in merito all’accordo tra Fieg e Fnsi sul rinnovo del Contratto di
lavoro. E auspicano che sia possibile effettuare sostanziali modifiche prima
della firma definitiva.

L’accordo infatti contiene alcuni punti che
modificano sostanzialmente il lavoro del giornalista nelle redazioni, introduce
pesanti novità in materia di organizzazione del lavoro e flessibilità, e in
compenso non propone adeguate garanzie di tutela per i collaboratori.

Pur esprimendo una generale contrarietà all’accordo, proponiamo
una
soluzione: chiediamo che si intervenga, modificando il testo o,
nell’ipotesi minima, aggiungendo sostanziali misure cautelative, sulle parti che
riteniamo possano avere gli effetti più incisivi.
 
In particolare ci
preme mettere l’accento sui seguenti concetti:
 
1) Nell’articolo 4  è
indubbiamente  vero che viene evidenziata la necessità di una lettera di
assunzione che indichi la qualifica e la testata di assegnazione. Tuttavia
questa misura viene superata e resa inefficace dall’introduzione dalla
possibilità di assegnazione successiva, su richiesta di un altro direttore, a
ogni unità organizzativa e qualsiasi prodotto editoriale giornalistico. Non
viene esplicitato l’obbligo di un parere favorevole né del lavoratore, né del
direttore di originale competenza, né
tantomeno la necessità di una
prevalenza a una testata di riferimento.

A ulteriore conferma
dell’esigenza da parte degli editori di equiparare il ruolo del giornalista a
quello di un dipendente di una qualsiasi industria, vengono introdotte
parallelamente le Unità organizzative redazionali, che avendo la funzione di
fornire contenuti a qualsiasi testata e per qualsiasi
prodotto, propongono un
modello lavorativo in cui il giornalista si troverà
a rispondere alle più
svariate esigenze produttive, in una situazione
assimilabile a quella del
lavoratore a cottimo.

All’interno delle Unità infatti non viene
specificato un ambito
preferenziale per il giornalista, che perde così la
possibilità di costruire una esperienza professionale specifica.

Questo
modello porterà il giornalista ad assomigliare sempre di più a una figura
“tecnica”, che risponde a esigenze contingenti, e dunque a perdere la sua
professionalità e ogni possibile identificazione come lavoratore della
conoscenza.

Nel richiamo all’articolo 7 (disposizione orari di lavoro)
c’è inoltre il rischio che la rotazione sia a brevissimo termine, perfino
nell’arco della giornata.  

La tendenza era già in atto ed è dovuta alla
crisi italiana dei media.  Noi però riteniamo si debba rispondere alle
difficoltà con la qualità e non con un  ulteriore peggioramento
dell’informazione.

Ricordiamo infatti che i giornalisti non sono
equiparabili ad altre
categorie di impiegato, in quanto, con la loro firma,
sono i primi garanti di quanto viene pubblicato.
 
2) Nell’articolo 3 al
comma C vengono introdotti i Contratti di
somministrazione lavoro. L’unica
misura cautelativa sono i limiti
quantitativi rispetto agli assunti con
contratto a tempo
indeterminato ex art.1. Riteniamo che la presenza di questo
tipo di
contratti, in qualsiasi misura, apra la strada per una futura
completa
denaturazione del rapporto di lavoro giornalistico.
 
3) Per
quanto riguarda il punto relativo al Distacco, facciamo notare che anche in
questo caso non viene esplicitata la necessità di un parere favorevole del
lavoratore. Riteniamo inoltre il periodo di 24 mesi troppo lungo.
 
4)
Per quanto riguarda la parte economica, facciamo notare che il passaggio della
periodicità degli scatti di anzianità a tre anni rappresenta un netto
peggioramento. E a fronte di un contratto che propone sostanziali alterazioni
del lavoro giornalistico, non vengono proposte contro offerte economiche
vantaggiose.
 
L’assemblea dei giornalisti Gruner und Jahr Mondadori
 

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Contratto giornalisti: giornalisti contro sindacato. Diario di una giornata di redazione 26 marzo 2009

Mentre sul sito della Fnsi continua a mancare l’informazione relativa alle utlime trattative sul contratto giornalisti (i sindacalisti sono giornalisti anche loro?), arriva un oggetto ingombrante. E’ la mail che riporta il comunicato del Cdr di uno dei principali quotidiani in Italia, il Corriere della sera, dove viene detto esplicitamente che nessuno si sente rappresentato da chi sta andando a frimare, in tutta fretta e ben nascosto, un contratto che non si sa a chi possa far piacere. L’accusa è pesante come un macigno: il testo che è circolato produce effetti devastanti sulla professione. E se lo dice il cdr di un quotidiano non certo noto per la sua spinta rivoluzionaria, forse anche i vertici del sindacato saranno costretti a crederlo. Finchè lo abbiamo detto noi, paria dell’informazione, dediti ad attività secondarie quali settimanali, mensili, siti internet, gente che a a che fare davvero con il mobbing, il precariato, la crisi, nessuno a voluto rispondere. Nel contratto si parla di felssibilità, ma non c’è traccia di tutela dei lavoratori flessibili. Non c’è traccia di un rispetto minimo del lavoro dei free lance. Non c’è traccia neppure del rispetto dell’esperienza  o della capacità lavorativa. Speriamo che più redazioni seguano l’esempio del Corriere. 

Ecco il loro comunicato

CONTRATTO/Corsera contrario alla bozza d’accordo

La redazione del
Corriere della Sera esprime la propria contrarietà
all’ipotesi di accordo fra
Fieg e Fnsi sul rinnovo del Contratto Nazionale
di Lavoro Giornalistico,
accordo che appare assolutamente dannoso per
l’intera categoria dei
giornalisti italiani, senza distinzione. A questa
valutazione negativa si
aggiunge l’incredulità per il fatto che fino
all’ultimo il testo definitivo
sia stato secretato, né comunicato nè
diffuso.
Per quanto riguarda la
parte normativa, essa smantella tutele e diritti
storici che i redattori del
Corriere della Sera hanno ripetutamente chiesto
alla Fnsi di salvaguardare,
mentre inveceb sono state introdotte novità
pesantissime in particolare e fra
l’altro in materia di organizzazione del
lavoro, flessibilità e
mobilità.
Quanto alla parte economica, ne risulta addirittura un’erosione
della busta
paga soprattutto considerando le modifiche al regime degli scatti
di
anzianità, con conseguenze devastanti sul livello degli stipendi e
anche
sulle future pensioni.
La redazione e il Cdr del Corriere hanno
sempre sostenuto che non esiste un
valido motivo per firmare un contratto
gravemente peggiorativo di quello
esistente: tanto meno ha senso, come
giustificazione, accettarlo in un
momento di grave crisi economica e quindi
di dichiarata estrema debolezza.
La redazione del Corriere della Sera
ribadisce il suo no all’ipotesi di
intesa e considera in ogni caso
indipensabile che il referendum annunciato
dal segretario abbia valore
vincolante, come doveroso in una reale
democrazia anche sindacale.
Il
CdR del Corriere della Sera
Milano, 25 marzo 2009

 

Qui invece l’unico testo che appare sul sito dell’Fnsi
La trattativa tra Federazione italiana editori giornali (Fieg) e
Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) sul rinnovo del contratto
dei giornalisti va avanti dal pomeriggio di oggi e continua nella notte
ma probabilmente non si riuscira’ per il momento a chiudere .

Qui  Il punto rinnovo del contratto 

non c’è nessun documento: solo una sterile cronaca che racconta tappe ormai duperti di una trattativa che è giusto che non proceda.

Nessuno gli mette fretta. ce l’hanno solo loro.

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La fine del giornalismo: il nuovo contratto. Diario di una giornata in redazione 24 marzo 2009

CONTRATTO GIORNALISTICO:
il 23 marzo è lunedì. Arriva in readazione una mail che ha questo contenuto: via libera della Giunta della Fnsi
alla firma (prevista per il 25 marzo). Due giorni dopo.
Mandato ampio per Franco Siddi. Aumento
di 260 euro per il redattore ordinario.
Scatti: i primi tre restano biennali
e al 6%; gli altri  (senza un tetto)
avranno cadenza triennale.
I due punti più innovativi della parte
normativa: multitestata e migrazione
da una testata all’altra per i redattori.
I “capi” diventano dirigenti e, quindi,
saranno licenziabili (riceveranno 26
stipendi al posto dei 13 attuali).
Il sindacato prepara il referendum.

Bene. A fronte di una manciata di soldi, di cui nessuno se ne fa qualcosa, perché non cambiano la qualità della vita, ci giochiamo per sempre la professione.
Più avanti infatti viene spiegato più in dettaglio cosa si intende per multimedialità:
"Non ci sarà più in sostanza il vincolo della testata di riferimento, che legava il giornalista a un solo collettivo redazionale. La flessibilità sarà contrattata e regolata: si può lavorare nell’arco dell’orario stabilito dal contratto per più testate che diffondono notizie su piattaforme diverse (quelle che già troviamo nelle redazioni sulle work-stations di ultima generazione). Ma si risponde ad un direttore e non si esce dal solco del rispetto dell’autonomia e della dignità professionale. In sostanza, senza muoversi dal tavolo di lavoro abituale il giornalista, nell’arco dell’orario stabilito dal contratto, potrà scrivere, su richiesta del direttore o dei direttori, non solo per la testata di cui & egrave; redattore  ma anche per le altre testate del gruppo editoriale di cui fa parte (tv, radio, agenzie di stampa, periodici, edizione online). Tutti questi passaggi saranno contrattati. Ovviamente è esclusa una utilizzazione selvaggia dei singoli. Sulle aziende graverà il costo legato ai corsi di formazione obbligatori per tutti i giornalisti che saranno coinvolti nella multimedialità.
La novità è l’introduzione di “pool” in grado di produrre contenuti “specialistici” per più testate dello stesso gruppo  nel rispetto  dell’autonomia dei giornalisti e delle specifiche legislative e del contratto. I “pool” saranno delle testate con un direttore responsabile: funzioneranno come agenzie di stampa interne, che produrranno servizi per le varie testate della casa editrice.
Ai giornalisti potrà essere chiesto dai direttori di migrare, – nell’ambito della stessa casa editrice e nel rispetto della propria professionalità e della propria identità sociale -, da una testata all’altra. Mantenendo lo stesso stipendio si intende".
Ai più distratti, a chi non ha mai lavorato in una redazione, il problema può non sembrare drammatico. Che male c’è a lavorare oggi per due pagine dedicate all’ uncinetto e che compariranno sul femminile, e domani per una inchiesta sul latte contaminato che uscirà invece sul settimanale. Viv la diversità, così non ci si annoia. Che male c’è a scrivere oggi un articolo, e domani mettersi a risistemare il sito web del gironale? Anzi, così si dimostrano le proprie capacità professionali. Il problema però c’è. Basta alzare la tenda, o anche provare a passare tre mesi, da precario, ma anche non, in una di queste situazioni. Il lavoro di giornalista, come tutti i lavori della conoscenza, non si basa su una macchina. La macchina è il cervello. Non si basa sull’organizzazione del lavoro, il lavoro viene organizzato individualmente. Ciò significa che se non si riesce a fare quello che viene richiesto, non ci sono limiti. Il limite è solo personale. Dunque se mi vengono affidati contemporaneamente un impaginato, un sito web e un articolo, cercherò di fare tutti e tre, non importa in quali ore e con quali fatiche, eprché altrimenti il mio direttore mi farà notare che non mi sono "impegnato" abbastanza.
Fai parte del pool e non stai al ritmo? Non c’è problema: il tuo contratto non verrà rinnovato. E se per caso hai avuto la fortuna di essere già passato alla stretta cerchia degli Eletti assunti Per Sempre, verrai confinato in situazioni via via sempre meno interessanti. Ti verrrà richiesto di cipiare e incollare i testi degli altri nel sito internet, o di sistemare l’html, non certo di scrivere tu qualcosa che abbia senso. La tua eventuale esperienza nell’ambito di un argomento poi verrà cancellata per sempre. Eri uno che sapeva muoversi e selezionare le news di scienza, distinguendo bufale da notizie serie? Eri uno che conosceva a fondo le tendenze della cultura digitale? Non c’è problema. Puoi continuare a seguirele, a leggere quello che ti pare, a mantenere il tuo interesse, se hai tempo per farlo. per il resto potrai invece provare l’ebbrezza di eprdere tutti i tuoi contati per conquistare quelli delle aziende che ti propongono oggetti fashion, oppure alimenti preconfezionati per bambini. IN fondo, per ddare una forma meno oltraggiosa alla velina di un ufficio stampa, non ci vuole troppo cervello.
La situazione insomma è ideale: è evidente che i media mainstream si stanno scavando la fossa con le loro mani. NOn ci potrà essere nessuna qualità nei loro prodotti, perché non ci sarà più nessuna qualità nelle professioni coinvolte. E forse persino un call center (che comunque ha un orario di lavoro e non impegna troppo la testa) potrà sembrare più allettante di un posto da precario in una redazione dove ci si troverà a fare di tutto, senza orari e soprattutto senza mai poter costruire un minimo di esperienza che possa poi essere in qualche modo spesa altrove.
ma anche il sindacato non è da meno: la comunicazione non è stata pubblicata sul sito nazionale dell’Fnsi, in più è comunque circolata a due giorni dalla firma effettiva. Ai cdr e ai lavoratori verrà chiesto un parere? Certamente, ma dopo. Un sistema da democrazia centro africana, applicato a una categoria che, il dubbio è lecito, di merita solo questa fine.

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La mafia, su altri media

Frontline è una televisione americana, sezione della Public broadcast service, specializzata in notizie che riguardano la situazione politica internazionale, secondo un approccio che tratta i problemi e le storie che riguardano più da vicino le comunità.
La Pbs è uno dei rari esempi di televisione pubblica della quale si possa condividere il concetto di "pubblica". Nata nel 1969 come corporation che associava diverse tv pubbliche americane, ha sempre puntato sulla qualità del prodotto giornalistico, come forma di distinzione rispetto alle tv commerciali. Lo scopo dichiarato di Pbs è infatti anche quello di fare educazione. E infatti una particolare attenzione è rivolta agli insegnanti, che possono per esempio trovare nel sito internet diversi strumenti utili a presentare gli argomenti sui quali è stato presentato un video, anche sotto altri aspetti.
Grazie a questo approccio, è riuscita a selezione argomenti e persone che riescono a produrre una quantità di materiale interessante sotto molti punti di vista. La qualità tecnica è sempre eccellente, ma passa decisamente in secondo piano rispetto al taglio dei contenuti, che non sono mai banali, o trattati frettolosamente, o per un pubblico da dodicenni, come in vece in Italia ci hanno abituato.
La settimana scorsa hanno dedicato uno speciale alla mafia.
Un argomento non nuovo, ovviamente facile da trovare anche sui media internazionali. Ci si poteva però aspettare la solita puntata "tutti frutti", che analizza la mafia come fenomeno a se stante, che la storicizza, la isola e alla fine la presenta come un oggetto di studio. Invece il <a href =”http://www.pbs.org/frontlineworld/stories/italy801/> video</a> che viene proposto ha tutt’altro spessore.  
Ci si poteva anche aspettare che fosse stato realizzato da un giornalista americano. Invece l’autrice, italiana, è Carola Mamberto. E la mafia viene si presentata come problema, ma accanto alla sua soluzione. ovvero i movimenti "dal basso" che hanno rivendicato la possibilità di fare a meno del pizzo.  
Storie come queste, nei giornali italiani, nelle televisioni italiane, non si vedono mai. Sono storie di cui non si parla sulle pagine di Repubblica, o del Corriere, giornali in cui le mezze pagine vengono invece dedicate al caso della donna che ha avuto otto gemelli. Intendiamoci.

Non che sui giornali mainstream non si parli di mafia.

Quello che manca è piuttosto raccontare  quello che fa la gente, nella vita di tutti i giorni, nei posti
dove vivere normalmente è una avventura, contrapponendolo alle storie che raccontano di avventure di
plastica, create a tavolino per i media, e dunque per la pubblicità.

Quello che manca è sostituire alle grandi notizie, ai grandi film, le piccole prospettive che davvero
spiegano come stanno andando le cose. E che avrebbero un altro interessante e fondamentale effetto: quello di fare in modo che altra gente, in altri posti, abbia voglia di mettersi in contatto, creare reti di
supporto, oppure abbia voglia di imitare l’esempio, o ancora abbia voglia di saperne di più, perché ha
scoperto che la semplificazione toglie la possibilità di scoprire come stanno realmente le cose. Ruolo che
in teoria dovrebbe essere il primo per una televisione pubblica, al servizio dei citttadini.

Quello che manca è lasciar perdere il senso di sorpresa generato dai titoli o dai grandi effetti, per
sostituirlo con la sorpresa che ci sono meccanismi che non si erano capiti fino in fondo, e che ci sono
persone che stanno cercando di smontarli con piccoli gesti.

Il video ha anche un finale che stringe il cuore e mette le lacrime agli occhi, con la vedova di Libero
Grassi che riesce a fare una battuta ironica e riesce ad avere la faccia più bella e serena del mondo. Non
fosse che le lacrime non servono: serve far uscire la rabbia e farla diventare azione e lo splendido
sorriso di chi ha perso tutto e nello stesso tempo ha guadagnato una forza infinita.

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Domenica in panchina- Diario di una giornata in redazione 26 gennaio 2009

Ebbene si lo confesso. A volte mi sento esattamente come un
calciatore in panchina. O peggio, come un tifoso, uno dei tanti, ma di quelli
tignosi. Gente che passa l’intera domenica a parlare di cosa ha fatto il
giocatore X, fino al punto di descrivere non solo le azioni ma anche se si è
messo le dita nel naso. L’arbitro invece si merita un intero trattato
economico, a causa del fatto che è venduto. E l’allenatore… l’allenatore si
sa che è in realtà una meta persona. Tutti i tifosi sono allenatori, e quello
che sta seduto accanto ai giocatori è solo una figura virtuale, una sorta di
buco nero al quale vengono rivolti commenti di ogni tipo. Le critiche sono
corrosive, le lodi sono angeliche. Non esistono mezzi termini. C’è un’unica
certezza: qualsiasi tifoso sa fare il mestiere meglio di lui.

Anche io mi sento in questo modo in certi momenti. leggo la
cronaca da Gaza, so che il prestigioso inviato è lì sul campo. E non riesco a
capire come mai riesca a dimenticarsi che Hamas ha vinto le lezioni e possa
essere descritto quasi fosse un gruppuscolo di attivisti. nell’articolo di
analisi fredda mi accorgo che nessuno cita la situazione di Gaza prima della
crisi attuale. Viene solo accennata. Non vengono elencati i danni economici che
Israele ha imposto alla gente che vive qui. Nessuno rivela che perfino
impomatati funzionari internazionali quando arrivano qui si domandano come mai
ci siano così pochi kamikaze, visto che a loro per primi avrebbe la tentazione
di indossare una cintura di bombe per spiegare che alla violenza definitiva è
istintivo rispondere con la violenza della disperazione.
Mi domando come mai nessuno descriva la cronica assenza
d’acqua, e non la metta in relazione con le abbondanti irrigazioni che vengono
fatte nei kibbuz israeliani, dove si coltivano patate, avocado, fragole e
pomodori ciliegia che arrivano in Italia e che nessuno si domanda da dove
vengano.
Sono capace di fare una intera dissertazione accademica sul
perché i media abbiano scelto di sottolineare l’assurdità della preghiera
islamica, il giorno dopo che il rabbino capo, confondendo lui per primo
religione e stato, aveva strillato contro il fondamentalismo.
Non solo: saprei dove trovare i dati del mercato di armi che
vanno e vengono, da Usa, Inghilterra, Italia, Israele e ritorno, in uno scambio
di favori e di competenze che non ha fine e che viene valutato i miliardi di
euro.
Non parliamo poi quando si esce dalla cronaca per entrare
nella comunicazione scientifica, visto che questa è la mia specializzazione. Ho
letto articoli sui neuroni che facevano venire i nervi, storie di animali
scritte da bestie, sproloqui sull’effetto serra che facevano intuire che il
giornalista in questione fosse totalmente bollito.
Ma io sono solo un tifoso, al massimo un giocatore in
panchina. Vivo l’emozione, saprei cosa fare, sferro un finto calcio. Pubblico
una notiziola sul mio blog. Ma qui mi devo fermare.
Ascolto dibattiti sulla libertà dell’informazione in cui si
dice quanto sia malata, non ci sia diversificazione, non ci sia qualità. Ma
nessuno che spiega come nel mondo dei media mainstream capitale e informazione
siano profondamente connessi. Nessuno che spiega che se un giornalista non può
scrivere quello che vorrebbe, ma si deve limitare a passare veline o scrivere
comunicati commerciali rieditati, o a condizionare la gente con un
"pensiero positivo", il panorama non può essere diverso da quello che
abbiamo sotto gli occhi.
Certo, poi l’informazione si può fare gratis, e mettere on
line. Ho scritto una bellissima inchiesta sulle armi e Israele. Ma poi non l’ho
pubblicata. Non sono riuscita a finirla e non si possono fare le inchieste nel
tempo libero quando già si è costretti ogni giorno ad andare in ufficio, non si
possono incontrare le persone capaci di dare spiragli diversi da quello che si
trova già in rete. non si può stare dietro a un contatto con lo Stockholm
International Peace Research Institute per capire i vai e vieni di elicotteri
ed elmetti negli ultimi cinque anni.
E qui c’è la differenza tra me e il vero tifoso, o il vero
giocatore da panchina. In fondo, non a caso, non solo tifosa non sono mai
stata, ma ritengo che l’esserlo sia l’ennesima dimostrazione di che situazione
drammatica stiamo vivendo.
Il vero tifoso continua a parlare, al bar tiene una lezione
intera della durata di più ore. Il vero tifoso scrive commenti sui siti, il
vero tifoso crea opinione. Il giocatore in panchina non ha frustrazioni perché
è stato allenato a pensare in modo gregario, in funzione della squadra. E il suo è un progetto collettivo.A me invece passa la voglia. Ci sono troppi giocatori in
campo, nei bar, nei media. E io sarei fessa se non avessi capito perché
l’allenatore non mi fa mai giocare.

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A un getto di spugna – Diario di altri scontri in redazione

Un contributo
di reginazabo!

Arrivo a Roma una mattina di febbraio. Nevica. Nonostante il freddo, ho
addosso solo un cappotto di maglina e le scarpe aperte. Ho ancora il
chiodo fisso di fare una buona impressione agli appuntamenti di lavoro:
anche se ne fossi capace (ma non è affatto il mio mestiere, diciamolo),
è un’ambizione che passerà comunque presto ma che per ora è ancora
trattenuta da certe vane illusioni. Trasferirmi a Roma per me vuol dire
tuffarmi nel centro dell’industria culturale italiana, passare dal
lavoro per case editrici specializzate o provinciali agli stimoli
continui del mondo dell’editoria che conta, quello che riempie le borse
degli italiani a Natale, quello da cui provengono i libri che si
regalano agli amici cari, i libri che fanno storia, i libri che leggiamo
anche io e i miei conoscenti. Basta con gli editori sconosciuti
dell’estrema periferia, o con i tomi di tecniche ortopediche e chirurgia
veterinaria, basta con i pop-up degli animali della fattoria e i
cataloghi di polverose pinacoteche: finalmente potrò occuparmi di libri
veri, di libri famosi, o quanto meno di libri tanto belli che li
comprerei anche io.
Aspetto il tram con impazienza: tra mezz’ora ho un colloquio alla casa
editrice da cui dovrei svolgere lo stage conclusivo del mio illustre
master in editoria. Avrei preferito farlo altrove, dedicarmi alla
narrativa o a una certa saggistica impegnata, ma al corso la
competizione è accesa soprattutto per chi vuole andare a Roma, e io
voglio assolutamente stare lì. L’alternativa sarebbe Milano, ma Milano
mi spaventa, non conosco nessuno, temo che tra la pioggia e la nebbia mi
assalga una delle mie ormai ricorrenti crisi depressive.
Finisco così in una casa editrice di libri illustrati con cui ho già un
contatto: qualche mese prima avevano bisogno di una traduzione veloce e
un collega mi ha passato il lavoro. Da allora mi fanno tradurre guide
turistiche: una noia mortale, ma ci si spiccia in fretta e alla fine la
paga oraria è migliore di altre. Più dei sette euro e mezzo lordi a
cartella che mi rendono le favolette e più veloce dei saggi geopolitici
che, sì, mi vengono pagati di più, ma poi bisogna trovare le citazioni
nei libri, studiare, informarsi, e non è neanche detto che quello che
scrivo mi trovi d’accordo, anzi: a volte mi vergogno persino del
contenuto dei libri che traduco. Comunque con le guide finisce che
riesco a prendere dieci euro all’ora, e io una somma del genere ormai la
considero anche dignitosa: mi accontento di poco per vivere.
Alla casa editrice romana riesco anche a strappare un rimborso mensile
per il mio stage: una somma che altri miei colleghi si sognano. Alcuni
devono cavarsela con i buoni pasto: visti i prezzi delle stanze, a volte
mi chiedo se si siano sistemati sotto un ponte.

Io, mi pare di averlo già detto, ho qualche turba psichica, e l’idea di
vivere in una stanza doppia mi fa orrore. Vivere in un appartamento
condiviso mi andrebbe anche bene, ma da queste parti se vuoi una stanza
devi superare interrogatori dettagliatissimi e, sarà che le mie >
insicurezze traspaiono in superficie, sarà che con me deve venire anche
il mio gatto, alla fine sono costretta ad accontentarmi di una stanza
con bagno e angolo cucina a Vitinia, oltre il Grande Raccordo Anulare in
direzione del mare. In quei pochi metri quadri perfino il mio gatto sta
stretto: chiuso lì dentro tutto il giorno al buio miagola disperato.
All’inizio comunque la soluzione mi pare ottimale: anche se l’affitto è
molto più caro dei miei standard, pago la stessa cifra che sborserei per
una stanza più vicina al centro, ho la mia indipendenza e il treno che
viene da Ostia è a un tiro di schioppo. Non ci vuole più di un paio di
giorni per capire la fregatura: io sono abituata a metropolitane
mediamente affollate, non immagino ancora le vetture romane in ora di
punta, dove nell’ora di viaggio che mi ci vuole per arrivare al lavoro
non riesco neanche a leggere il giornale. Qui il giornale non posso
nemmeno aprirlo: è lo spazio che manca, e anche la concentrazione sulle
parole scritte mi sfugge. Con tutti i discorsi che rimbombano contro le
pareti dei vagoni, i significati si perdono nella folla.

In casa editrice, in compenso, continuo a entrare con venerato rispetto
per qualche mese: sono convinta che questa sia un’esperienza da cui
imparare, non ho ancora calcolato che con il loro rimborso si stanno
finanziando una collaborazione che da libera professionista mi
frutterebbe il triplo. Conto ancora di poter arrivare al punto di
decidere quali libri verranno pubblicati in questo paese e quali no.
Forse pazientando per una decina di anni… e intanto tutti i giorni mi
alterno tra incombenze di bassa manovalanza e mansioni altamente
professionali e scarsamente retribuite per produrre su scala industriale
(spesso nelle tipografie cinesi, che costano di meno) costosissimi libri
da esporre sui tavolini dei salotti che contano: fantastici volumi
patinati, luccicanti, e completamente insulsi. Gli status symbol
dell’alta borghesia romana, veltroniana e radical chic.
Mentre tento di carpire i segreti del mestiere continuo a tradurre le
guide, stavolta con la paga mensile dello stage. Mi consolo pensando che
in questo caso posso leggere direttamente le correzioni delle bozze e
migliorare le mie traduzioni esaminando la revisione. Scopro allora che
l’espressione inglese “at a stone’s throw” non va tradotta, come ho
fatto io, con “a un tiro di schioppo” bensì con “a un getto di spugna”.
Ne parlo con l’editor: mi dice che suona meglio. Le credo e mi adeguo,
senza neanche verificare. Da quel giorno in tutte le guide che tradurrò
terrò bene a mente il consiglio traduttivo della mia collega, impiegata
nell’azienda già da un paio d’anni e sicuramente, penso io, più esperta
di me. Continuo a dirmi che ho solo da imparare.
Quando il mio stage finisce la casa editrice mi offre un contratto di
sostituzione di maternità raddoppiandomi la paga. Io faccio due conti e
chiedo di triplicarla: così oltre a pagare l’affitto potrò permettermi
anche un po’ di tempo libero senza passare la notte a occuparmi delle
collaborazioni occasionali che svolgo diligente da troppo tempo. Loro
acconsentono, basta che non pretenda anche i contributi. “Mi ricordi me
da ragazza”, mi dice la direttrice editoriale: “anche io volevo tutto e
subito”. Mentre le sorrido mansueta mi chiedo se anche a lei, quando era
ragazza, sia capitato di pagare un affitto pari allo stipendio mensile
che riceveva da mezzo anno.
Avevo così davanti a me la sicurezza di un altro anno di libri
bomboniera: una sicurezza a termine, ma non meno monotona, la garanzia
di otto ore di lavoro al giorno più due per andare e tornare
dall’ufficio, dove bisognava che mi presentassi puntuale anche se a casa
avrei tradotto le guide turistiche molto meglio e più in fretta, senza
pause sigaretta, pause caffè, esose pause pranzo, pettegolezzi e sfoggi
di eleganza delle impettite colleghe. Bisognava che mi presentassi ogni
mattina, senza discussioni, anche se per legge il mio contratto non
richiedeva la presenza in sede. “Il fortino deve essere presidiato”,
scherzava la mia collega editor, quella del “getto di spugna”. Ho
cominciato a marcare male quando nei giorni di sciopero della
metropolitana ho deciso di restare a casa a lavorare per non alzarmi
un’ora prima e inseguire l’ultimo treno disponibile.
Dopo un altro mezzo anno, anche se finalmente iniziavo a uscire
dall’incubo di solitudine e angoscia della vita ai margini di una
metropoli caotica e spesso settaria, anche se non mi facevo più cogliere
dall’affanno ogni volta che mettevo piede in una stazione della
metropolitana e alla fine avevo individuato le giuste strategie di
sopravvivenza e spazi più accoglienti e affini a me, ho cominciato a
convincermi che l’unico modo per aspirare a una vita soddisfacente fosse
disertare la metropoli e i ritmi imposti dall’esterno. Dopo una
riflessione nemmeno troppo lunga ho scelto di licenziarmi e di
ricominciare a tradurre soltanto come libera professionista. In realtà
le mansioni che svolgevo nella casa editrice avrebbero potuto essere
svolte ovunque: sarebbe bastato che passassi un paio di volte al mese in
redazione, probabilmente. Siamo nell’era di Internet, pensavo. Invece di
fronte a quell’impensabile defezione la direttrice editoriale ha preso a
manifestare un un disprezzo nemmeno troppo celato nei miei confronti. La
slealtà all’azienda si paga.
Nei primi mesi che hanno fatto seguito al mio trasferimento le guide
turistiche hanno continuato a tenermi impegnata tra non pochi sbadigli,
e i getti di spugna non sono certo mancati: gli alberghi più fantastici
si trovano sempre, in tutte le guide che si rispettino, “at a stone’s
throw” dal centro, dal museo di arte moderna, dal tipico mercato di
tappeti eccetera eccetera.

Un giorno la direttrice editoriale, fatto strano, mi chiama: è sempre in
giro a organizzare eventi e a intrattenere grandi autori e spesso dà
solo un’occhiata fugace alle bozze dei libri in uscita: del resto in
questa industria è la copertina che conta. Stavolta invece a quanto pare
le avanzava qualche giorno libero: è riuscita a rileggere tutta la mia
traduzione, la prima che ho consegnato da quando mi sono licenziata. E
infatti mi telefona proprio per raccomandarmi di stare più attenta
nell’altro lavoro che sto facendo, 200 noiosissime cartelle in venti
giorni, come l’altro, quello che la direttrice ha tra le mani: una
traduzione alla velocità della luce, tanto sono guide. Devo fare
attenzione, mi dice, perché nel testo che ho appena consegnato, invece,
mi sono sfuggiti molti inglesismi. “Per esempio hai tradotto at a
stone’s throw con a un getto di spugna, e questo è chiaramente un calco,
non lo vedi?”.
Io vorrei risponderle tante cose. Che “getto di spugna” non è certamente
un calco, per esempio: che rapporto potrebbe mai esserci tra stone, una
pietra evidentemente dura, e la spugna, che invece è morbida e
appartiene al regno animale? Ma siamo al telefono, e non c’è tempo per
tante sottigliezze. Non ho il cuore nemmeno di denunciare la prima >
responsabile del mio errore, la mia collega editor: lei è ancora lì a
sopportare l’umore lunatico della direttrice, e poi mi sento in colpa
per non aver mai verificato in prima persona quell’espressione, per non >
essermi fermata a pensare che la spugna, quando si getta, non ha niente
a che fare con le distanze e invece rimanda alle sconfitte.
Evidentemente le distanze che percorrevo ogni santo giorno mi hanno
ottenebrato fino a farmi dimenticare cosa significassero le parole. Non
trovandomi a un tiro di schioppo da nulla di quello che avevo sperato,
cominciavo a metterci una pietra sopra. Solo quando poi la spugna l’ho
gettata veramente le parole hanno recuperato pian piano il loro senso.
Mi chiedo, spesso, se la mia collega editor, bella come una top model,
tenebrosa come una notte di luna nei cieli del Mediterraneo, ma non
tanto precisa né attenta, abbia notato, mentre la direttrice editoriale
sbraitava sui miei plateali errori di traduzione, che quello sbaglio lo
aveva commesso anche lei, ricordando a sua volta, fosse solo per qualche
istante, quale valore abbiano davvero parole e azioni.

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Ribelli – Diario di una giornata in redazione 5 dicembre 2008

Sconfitta. Sconfitta perché non ho considerato che la
corporazione esiste. E non è per nulla vero che, nonostante i giornalisti siano
individualisti sfrenati, giochino da soli. Ho commesso un grande Errore, che mi
ha negato per sempre la possibilità di credere di poter fare delle
collaborazioni esterne, di avere un contatto con altri mondi, di scrivere,
magari, forse, qualcosa di più interessante di quello che faccio già ogni giorno.

Mi sbagliavo. Prima di tutto perché gli articoli che mi sono
stati chiesti erano ovviamente perfettamente in linea con quello che richiede l’editoria
attuale (ma che, credevo forse potesse essere diverso? Il mercato è mercato) ,
e dunque proprio quella marmellata di sogni e positivismo che sappiamo essere
capace di drogare le masse, allontanandole dalla capacità del ragionare
concreto.

Secondo luogo perché se ti ribelli, vieni espulsa,
cancellata, annichilita. E io l’ho fatto. La ribellione era una delle mail di
cui ho già parlato, una di quelle in cui, dopo un mese di assenza di risposte,
uno usa toni leggermente meno ossequiosi per pretendere di essere ascoltato. La
mail l’ho mandata a un redattore di una testata. Ma il risultato si è spalmato
su un altro redattore di una testata della stessa casa editrice. Insomma. La
voce corre in fretta.

Mi piace immaginare cosa si siano detti alla macchinetta del
caffè. Non dubito che i miei toni siano stati trasformati in quelli di una
sfacciata, una maleducata, una che si è permessa di chiedere qualcosa. L’altro
avrà anche pensato che forse bisognava fare una tara, ma per cameratismo avrà
deciso di condividere lo stesso stile di risposta. All’ultima mail che gli ho
mandato non ha risposto neppure lui. Ho riletto la mia mail.

 

Buon giorno, ho mandato una proposta una settimana fa. Mi
dispiace dover notare ancora una volta che non sono degna neppure di una
risposta che dica che la mail è stata ricevuta. O ancora meglio che la proposta
non è interessante, o che è necessario pensarci e si valuterà in futuro. Insomma
una qualsiasi risposta.
Sono redattore anche io. E credo che il rapporto con i collaboratori esterni
richieda una capacità di relazione e di buona educazione.
Mi scuso per i toni, ma purtroppo questo è un male comune, che io ho
personalmente deciso di combattere dicendo come la penso. Se tutti i
collaboratori si potessero permettere di dire come la pensano, forse il lavoro
di redattore, ma anche di freelance, sarebbe un po’ diverso e un po’ più umano.
Distinti saluti.

 

Certo. Non volevo essere gentile. Non volevo neppure fare un
tentativo di recuperare nessun rapporto. Avevo già capito come andava a finire.
Ma, nella mia ingenuità, non ho fatto il calcolo, non ho capito che rischiavo
grosso in modo esteso. E che lo “sgarro” che fai a qualcuno, si allarga come se
lo avessi fatto ad altri.

Una mia amica, l’altro giorno, mi ha comunicato che ha
mandato una letterina alla redazione del settimanale per cui stava facendo una
rubrica fissa per dire che non era più interessata. Le ho chiesto se era matta:
lei fa solo la free lance. Mi ha risposto dicendo che non ne può più di come
trattano la gente. Che non ha senso lavorare in questo modo. Che non è giusto.

Io però non posso non ritenermi totalmente responsabile di
quello che ho fatto. Non posso però neppure non capire che in realtà chi sta
perdendo in questa faccenda è chi all’ultimo colloquio mi ha confidato: sai di
gente che sa scrivere ce n’è davvero poca. Io perdo. Si. Perdo la possibilità
di scrivere un articoletto di 3.500 battute sull’ultimo posto che ho visitato
(poteva essere la Cina, vabbè), ma senza raccontare niente di sostanzioso
perché deve essere una proposta di meta, non un’inchiesta. O anche di veder
pubblicato quello che ho già fatto, su come sarà il nostro futuro. Potenzialmente
un argomento fantastico da mille punti di vista. Che diventa però frustrante se
sei costretto a ridurlo a un elenco di tecnologie che non ci cambieranno mai la
vita perché tanto siamo sempre i soliti animali. Cosa perdono loro invece? Forse
nulla. E’ da anni che sostengo che nelle pagine ci potrebbe essere pure scritto
solo cacca, puzza, merda, culo e via così. L’importante sono le foto, e la
pubblicità.

In un altro mondo in cui sono finita però, le risposte sul
contenuto sono invece tangibili, pesanti, continue, insistenti. Ovvio. E’ un
mondo irreale, illusorio, quello di internet.

Stamattina, un po’ per sorprendere un po’ per vedere se ci
cascavo, il responsabile di secondo livello mi ha comunicato che nella casa
editrice gemella hanno licenziato delle persone. Ovviamente ho chiesto chi. E a
quel punto ha dovuto rispondere che erano direttori e manager, gli unici
davvero licenziabili in paese come il nostro, che ci ha messo un istante ad adottare
la precarietà mentre non elargirà mai gli amortizzatori sociali come nel resto
dell’Europa. Ho fatto pure di più. Gli ho chiesto da dove arrivava la notizia,
e con lui davanti al mio computer ho iniziato a cercarla nel web. Non c’era un
bel niente.  Ma qualcun altro in ufficio
ha confermato  che un fondo di vero c’è.  Però la discussione è continuata più tardi e
di nuovo è saltato fuori il problema degli esuberi.

Continuo a domandarmi: se nessuno ha bisogno di figure come
la mia (non quelli che cercano collaboratori, non quelli che ti hanno già sul
collo in redazione), se per avere un lavoro devi stare molto attento a come ti
muovi e ti comporti, e non a mostrare le tue competenze, esiste l’informazione
o è solo una illusione? Propendo per questa seconda ipotesi. Le prove sono
ormai troppe.

D’altra parte in un mondo in cui la nostra speranza di
liberarci dal sistema dei media e dal conflitto di interessi risiede nella
potenza e nella forza con cui Murdoch risponderà al governo italiano e a
Berlusconi prima di tutti, non ci sono troppe speranze.

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Prodotto interno lordo-Diario di una giornata in redazione 1 dicembre 2008

Gentile xy (il cromosoma non è scelto a caso),
ti ringrazio ancora per la cortese mail di risposta che mi avevi inviato, ma ti ringrazia soprattutto il presidente del consiglio: il prodotto interno lordo viene infatti incrementato da ogni nostra azione, comprese le telefonate, le mail, e  i tarallucci che uno può sgranocchiare nervosamente nell’attesa di ricevere finalmente la conferma dell’appuntamento tanto desiderato.
Dopo circa un mese, credo di aver dato già un abbondante contributo all’economia. Sono un cittadino soddisfatto, dunque mi fermo, certa di rendere felice almeno tre persone (io, tu, e soprattutto la segretaria).
Per quanto riguarda il presidente del consiglio…. beh, se ne farà una ragione. Purtroppo non è l’unica forma di opposizione che gli riservo.
Un saluto

Questa è l’Ultima mail che ho inviato. Da oggi, ufficialmente, mi fermo. Non mando più otto mail al giorno per cercare collaborazioni. Già avevo avuto il sospetto che fossero più convenienti altri metodi: quello del tacco e scollatura per esempio, o quello del drink tenuto con mano rilassata, mentre si chiacchiera  di tutt’altro con il collo un pochino all’indietro, la spalla spostata verso avanti, il sedere in fuori,  al Ritrovo preferito dei Migliori.
Non partecipando a particolari occasioni sociali, non posso neppure approfittare dell’unico paio di scarpe che in un attimo di follia passeggera mi sono comperata qualche anno fa. Sono comunque scarpe estive e con questa pioggia non potrebbero essere esibite. peccato.
In ogni caso nessuno ammetterebbe che la bella presenza e il cipiglio disponibile facilitano il lavoro.
Dunque, se il curriculum non serve, l’insistenza non serve, i tacchi non servono, cosa serve?
Forse il lavoro nelle redazioni giornalistiche, esattamente come la mafia e l’effetto serra, non esiste. E’ un’idea che ci siamo fatti. ma è un’idea che non ha alcuna attinenza con la realtà. Questo è sicuramente vero per il tippo di argomenti di cui mi occupo io. Non si può chiamare lavoro giornalistico dover trovare le notizie in funzione dell’immagine, che a sua volta dipende dalla dominante di colore decisa astrattamente per la sezione dove finirà l’articolo. Non si può chiamare lavoro l’elaborazione di decine di scalette e proposte articolatissime, delle quali solo una su cento va effettivamente in pagina.
In internet ci sono invece delle agenzie che cercano collaboratori di tutti i generi. Ovviamente devono scrivere in inglese. ma l’offerta è enorme. Si va dal discorso da pronunciare in occasione del funerale di due vittime degli ultimi attentati in India (che mi alletta molto, ma temo di non essere preparata sulle usanze indu…), alla raffica di brevi testi ricchi di SeO per il portale di medicina olistica.
perché in Italia non ci sno servizi simili? Non servirebbero. In Italia non si producono contenuti a pagamento che non siano filtrati dal Contatto Personale, l’unico che assicura che la persona affiliata garantirà eterna riconoscenza e sarà disponibile a ogni tipo di richiesta. In Italia non si può partecipare a una offerta di lavoro proponendo un prezzo conveniente, o una esperienza. Le esperienze si devono raccontare in modo suggestivo, i prezzi convenienti sono quelli gratis, o quelli decisi improrogabilmente dalla redazione di turno. I tempi dei pagamenti superano l’anno, sebbene una legge europea sancisca che dopo un mese il collaboratore vada necessariamente pagato. ma chi mai si metterebbe a denunciare un datore di lavoro per insolvenza nei termini prescritti? Se basta perfino una mail di troppo per non accedere neppure per un istante alla Redazione dei Nostri Sogni….

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Elemosina- Diario di una giornata in redazione 12 novembre 2008

Alla centesima mail inviata per proporre idee e competenze,
mi sono improvvisamente sentita come il mendicante che tende la mano, seduto
sui gradini della chiesa. Ritengo la sua posizione molto più onesta della mia.
Dunque perché continuare a mandare missive inutili e non andare invece a
tendere la mano? Potrebbe essere un’azione rivoluzionaria, che smaschera il
gioco, ribalta la situazione, rifiuta gli schemi lavorativi imposti dal capitalismo.
Invece che davanti a una chiesa, potrei andare
davanti alla redazione del Corriere della sera, o di Famiglia Cristiana, oppure
anche a Radio popolare. magari qualcuno se ne potrebbe accorgere, magari
qualcuno potrebbe scattare una foto. Forse qualche giornale potrebbe decidere
perfino di farne una notiziola. Così almeno il mio nome comparirebbe sul
giornale. Se non riesce a esserci come firma di un qualche articolo, almeno
compare come individualità non rimossa.
Mentre inviavo di nuovo le mail alle stesse persone però ho
pensato a una cosa: perché continuare a essere gentili, ossequiosi, speranzosi
che un giorno, forse ma proprio forse, possa maturare qualcosa? Dunque ho messo
una frase di questo tipo: rimando per l’ennesima volta questa mail nella
speranza di ricevere una risposta, come per altro prevederebbe la netiquette.
Conoscendo bene il tipo di lavoro che facciamo e la confusione che regna nelle
redazioni, so che è sempre possibile perdere il centesimo di secondo necessario
a fare un reply dicendo: grazie non mi interessa. E stabilire in questo modo un
rapporto più corretto con chi propone la sua professionalità.
Non si fa, dice la coscienza schiavista di cui siamo
permeati, non si deve, non è conveniente. Conveniente? Tanto quelli on
risponderebbero comunque mai. E mi viene il dubbio che se più persone gli
dicessero cosa pensano davvero di loro, della loro presunta posizione di
potere, del loro modo arrogante di concepire i rapporti imani e di lavoro, forse
alla fine gli verrebbero dei dubbi. E imparerebbero a rispettare minimamente
gli altri. In fondo, grazie ai potenti mezzi tecnici, non ci vuole molto. Il
tempo di infilarsi un dito nel naso, o di grattarsi il ginocchio, o di fumare
l’ennesima sigaretta, una operazione che nell’immaginario romantico del giornalista
ha una grande rilevanza.
Com’è l’immaginario romantico delle persone che lavorano
nelle redazioni? Probabilmente in realtà è molto basso. Probabilmente faticano
anche loro a svoltare la giornata, sepolti da inutili perdite di tempo quali
prendere il caffè con i colleghi, parlare del tempo libero, far vedere che si
appartiene a un mondo che non c’è. In questa grande fatica non c’è tempo per
pensare alle idee, alle cose che avrebbe senso mettere in pagina. Ed è per
questo, forse, che quando un oscuro collaboratore si affaccia non si ha tempo
per rispondergli. Non si capisce neppure la logica di quello che sta facendo.

Ieri per esempio a me in redazione è capitato un
interessante fenomeno. Sto caricando una serie di contenuti per una community
piuttosto animata. A un certo punto uno di questi viene copiato e messo, come
originale, da un utente, che esprime tra l’altro una critica su quello scritto
da me, quasi volesse screditarmi. Chiamo il responsabile di primo livello e
faccio notare la stranezza della cosa: l’utente sembra suggerire che io abbia
copiato il contenuto che ho postato da qualche parte.
Il responsabile di primo livello nicchia e non da importanza
alla cosa. Ma improvvisamente fa attenzione quando io faccio notare che
cliccando l’icona dell’utente si può vedere che si è iscritto alla community lo
stesso giorno in cui io ho iniziato a contribuire alla community. E soprattutto
quando dico che solo noi due sapevamo in quale giorno io avrei iniziato. Scrivo
anche al responsabile del sito internet segnalando la cosa, ma non ricevo
subito una risposta.
Il responsabile di primo livello torna al suo posto. Io
ricarico la pagina e scopro che il post messo dall’utente è scomparso. Che
strano. Non basta. Stamattina il responsabile del sito mi manda una mail in cui
mi dice che l’utente in questione è una vecchia conoscenza. Vecchia? Ma se si
era iscritto da meno di una settimana….

Di questi intrighi e episodi da romanzo giallo di quarta
categoria sono piene le redazioni. Deve essere proprio per questo che nessuno
risponde alle mail dei collaboratori. Davvero, non c’è tempo.

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