Diario di una giornata in redazione 29 agosto

Ieri Nicholas Stern ha bucato l’incontro. Sono rimasta in Bocconi fino alle 11 ad ascoltare un economista francese che parlava un inglese incomprensibile. Poi sono tornata in redazione. Ho segnalato alla segretaria che ero tornata. Prima di andare avevo dovuto comunicarle che sarei stata assente per qualche ora. Da noi è così: un orario di lavoro preciso (9-13/14-17.15) e burocrazia precisa per assenze o variazioni di ogni tipo. Quello che è devastante è mettere insieme questa realtà con quello che la gente pensa del tuo lavoro.
Chiunque pensa che un giornalista sia libero da orari e sedie. Abbia il diritto di decidere cosa e come scrivere. Sia insomma un libero professionista con però la sicurezza una ricchissima busta paga, tredicesima e quattordicesima, i cinema gratis e non so cos’altro.
La nostra vita di impiegati ci schiaccia. Ma l’immaginario diffuso schiaccia me ancora di più. E tutte le volte, sia che intervisti qualcuno, sia che parli con un amico, ti tocca smantellare il romanticismo e presentare la desolante realtà. E a me va bene, perché sono qui da un pezzo. Ma se guardiamo la situazione di chi inizia ora, le cose sono molto peggiori, e gli stipendi sono inferiori a quelli di una commessa. Il cinema poi. E i teatri, la benzina, i treni. Vorrei sapere chi ha inventato queste cose, o se in un age d’or del passato ci fossero davvero. E’ tutto falso. Non si può andare con il tesserino del giornalista al cinema a pretendere una poltrona. A meno che tu non sia un figlio della camorra si intende. Il che è sempre possibile.
Passando nei corridoi  mi sono messa addosso il cartellino press e sono andata dal responsabile di primo livello a dire che purtroppo ero andata per nulla. Si è agitato, ha iniziato improvvisamente a trovare modi per dare comunque un senso alla mia uscita. Improvvisamente scrivere qualcosa sull’effetto serra diventa una Urgenza
Insopprimibile. Va bene così. Ho proposto tante volte articoli su argomenti di questo tipo. E non era mai il momento, oppure alla gente non interessavano, oppure ma chi ha detto che l’effetto serra esiste. Prendo l’idea di fare qualcosa sul tema come una piccola vittoria. Devo essere veramente arrivata ai minimi termini.
Nel pomeriggio parte una bella discussione su eros, libertà sessuale, adolescenti, senso della vita e della morte. Questa volta reggo senza fare altre cose, o quasi, perché a parlare siamo solo io e la mia collega. E dopo dieci minuti provo il brivido dell’impiegato: è così che si svolta la giornata, parlando e scambiando opinioni qua e là con gruppi diversi di persone. E questa, tra l’altro, è una attività permessa e incentivata. Mentre chi sta al computer a leggere cose, a consultare siti internet, ad ascoltare chissà cosa, oddio pure ad aprire un altro computer, quello personale, è evidentemente un individuo sospetto. In fondo di nuovo mi sento di non aver capito nulla. Di stare lamentandomi per niente. Qui ho la possibilità di parlare, scambiare idee con altri, liberamente, per tutto il tempo che voglio, a tu per tu e non in chat. Cosa si può volere di più? E’ il mito del pensionato, quello del ragazzotto, quello della mamma che ha accompagnato il bambino a scuola. Il mito del bar. Bar da tresette, bar sport, bar per il caffè. Bar come la tavola rotonda, per i cavalieri moderni.
Nel pomeriggio prendo un importante decisione. Domani, venerdì, prenderò mezza giornata di ferie. Me la merito, con tutta la fatica che faccio.

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