Ribelli – Diario di una giornata in redazione 5 dicembre 2008

Sconfitta. Sconfitta perché non ho considerato che la
corporazione esiste. E non è per nulla vero che, nonostante i giornalisti siano
individualisti sfrenati, giochino da soli. Ho commesso un grande Errore, che mi
ha negato per sempre la possibilità di credere di poter fare delle
collaborazioni esterne, di avere un contatto con altri mondi, di scrivere,
magari, forse, qualcosa di più interessante di quello che faccio già ogni giorno.

Mi sbagliavo. Prima di tutto perché gli articoli che mi sono
stati chiesti erano ovviamente perfettamente in linea con quello che richiede l’editoria
attuale (ma che, credevo forse potesse essere diverso? Il mercato è mercato) ,
e dunque proprio quella marmellata di sogni e positivismo che sappiamo essere
capace di drogare le masse, allontanandole dalla capacità del ragionare
concreto.

Secondo luogo perché se ti ribelli, vieni espulsa,
cancellata, annichilita. E io l’ho fatto. La ribellione era una delle mail di
cui ho già parlato, una di quelle in cui, dopo un mese di assenza di risposte,
uno usa toni leggermente meno ossequiosi per pretendere di essere ascoltato. La
mail l’ho mandata a un redattore di una testata. Ma il risultato si è spalmato
su un altro redattore di una testata della stessa casa editrice. Insomma. La
voce corre in fretta.

Mi piace immaginare cosa si siano detti alla macchinetta del
caffè. Non dubito che i miei toni siano stati trasformati in quelli di una
sfacciata, una maleducata, una che si è permessa di chiedere qualcosa. L’altro
avrà anche pensato che forse bisognava fare una tara, ma per cameratismo avrà
deciso di condividere lo stesso stile di risposta. All’ultima mail che gli ho
mandato non ha risposto neppure lui. Ho riletto la mia mail.

 

Buon giorno, ho mandato una proposta una settimana fa. Mi
dispiace dover notare ancora una volta che non sono degna neppure di una
risposta che dica che la mail è stata ricevuta. O ancora meglio che la proposta
non è interessante, o che è necessario pensarci e si valuterà in futuro. Insomma
una qualsiasi risposta.
Sono redattore anche io. E credo che il rapporto con i collaboratori esterni
richieda una capacità di relazione e di buona educazione.
Mi scuso per i toni, ma purtroppo questo è un male comune, che io ho
personalmente deciso di combattere dicendo come la penso. Se tutti i
collaboratori si potessero permettere di dire come la pensano, forse il lavoro
di redattore, ma anche di freelance, sarebbe un po’ diverso e un po’ più umano.
Distinti saluti.

 

Certo. Non volevo essere gentile. Non volevo neppure fare un
tentativo di recuperare nessun rapporto. Avevo già capito come andava a finire.
Ma, nella mia ingenuità, non ho fatto il calcolo, non ho capito che rischiavo
grosso in modo esteso. E che lo “sgarro” che fai a qualcuno, si allarga come se
lo avessi fatto ad altri.

Una mia amica, l’altro giorno, mi ha comunicato che ha
mandato una letterina alla redazione del settimanale per cui stava facendo una
rubrica fissa per dire che non era più interessata. Le ho chiesto se era matta:
lei fa solo la free lance. Mi ha risposto dicendo che non ne può più di come
trattano la gente. Che non ha senso lavorare in questo modo. Che non è giusto.

Io però non posso non ritenermi totalmente responsabile di
quello che ho fatto. Non posso però neppure non capire che in realtà chi sta
perdendo in questa faccenda è chi all’ultimo colloquio mi ha confidato: sai di
gente che sa scrivere ce n’è davvero poca. Io perdo. Si. Perdo la possibilità
di scrivere un articoletto di 3.500 battute sull’ultimo posto che ho visitato
(poteva essere la Cina, vabbè), ma senza raccontare niente di sostanzioso
perché deve essere una proposta di meta, non un’inchiesta. O anche di veder
pubblicato quello che ho già fatto, su come sarà il nostro futuro. Potenzialmente
un argomento fantastico da mille punti di vista. Che diventa però frustrante se
sei costretto a ridurlo a un elenco di tecnologie che non ci cambieranno mai la
vita perché tanto siamo sempre i soliti animali. Cosa perdono loro invece? Forse
nulla. E’ da anni che sostengo che nelle pagine ci potrebbe essere pure scritto
solo cacca, puzza, merda, culo e via così. L’importante sono le foto, e la
pubblicità.

In un altro mondo in cui sono finita però, le risposte sul
contenuto sono invece tangibili, pesanti, continue, insistenti. Ovvio. E’ un
mondo irreale, illusorio, quello di internet.

Stamattina, un po’ per sorprendere un po’ per vedere se ci
cascavo, il responsabile di secondo livello mi ha comunicato che nella casa
editrice gemella hanno licenziato delle persone. Ovviamente ho chiesto chi. E a
quel punto ha dovuto rispondere che erano direttori e manager, gli unici
davvero licenziabili in paese come il nostro, che ci ha messo un istante ad adottare
la precarietà mentre non elargirà mai gli amortizzatori sociali come nel resto
dell’Europa. Ho fatto pure di più. Gli ho chiesto da dove arrivava la notizia,
e con lui davanti al mio computer ho iniziato a cercarla nel web. Non c’era un
bel niente.  Ma qualcun altro in ufficio
ha confermato  che un fondo di vero c’è.  Però la discussione è continuata più tardi e
di nuovo è saltato fuori il problema degli esuberi.

Continuo a domandarmi: se nessuno ha bisogno di figure come
la mia (non quelli che cercano collaboratori, non quelli che ti hanno già sul
collo in redazione), se per avere un lavoro devi stare molto attento a come ti
muovi e ti comporti, e non a mostrare le tue competenze, esiste l’informazione
o è solo una illusione? Propendo per questa seconda ipotesi. Le prove sono
ormai troppe.

D’altra parte in un mondo in cui la nostra speranza di
liberarci dal sistema dei media e dal conflitto di interessi risiede nella
potenza e nella forza con cui Murdoch risponderà al governo italiano e a
Berlusconi prima di tutti, non ci sono troppe speranze.

This entry was posted in periodici. Bookmark the permalink.

One Response to Ribelli – Diario di una giornata in redazione 5 dicembre 2008

  1. h says:

    che dire?

    grazie ornella 🙂

    Sono free lance da 8 anni, da 6 sono ufficialmente giornalista pubblicista e non ho mai scritto più di 1 cartella firmandola col mio nome.

    Lavoro in casa, da sempre, spesso in mutande. Vado nelle redazioni per farmi vedere un paio di volte l’anno. Alcuni redattori per cui lavoro non hanno la minima idea della mia faccia o della mia età. Di me non sanno nulla, anche se ci conosciamo da anni.
    Mi alzo la mattina alle 8, faccio il caffè e mi siedo alla scrivania. Accendo la macchina e via: arco e frecce e mi procaccio la preda della giornata. Non sempre ci riesco e alle volte è drammatico.

    Sembrerà strano, ma sono talmente abituata a non parlare del mio lavoro che un po’ farlo pubblicamente mi intimorisce 🙂

    Cmq dai ci provo, nei prossimi giorni cerco di raccontare qualcosa. Autonarrazione e aneddotica. Potrei anche farcela.

    a presto
    h.

Comments are closed.