Ma tu sei part time o a tempo pieno? Chide di punto in bianco oggi il responsabile di primo livello. Rispondo che sono a tempo pieno. Non se ne è forse accorto? Sospetto sia una domanda a doppio fine. Dopo un po’ in un momento di espansività inizia a raccontare che ha appena parlato con il direttore. Stavano cercando di organizzare meglio gli spostamenti che sono avvenuti negli ultimi giorni, Ma, mi fa notare, il direttore ha anche rivelato che nella nostra testata ci sono degli esuberi. Una cosa assurda, dice il responsabile di primo livello. Che però evidentemente ha la necessità di sottolineare questa informazione, visto che negli ultimi giorni, nei corridoi e davanti alle macchinette da caffè, l’ha fatta circolare ampiamente. Io sto lavorando intensamente in questi giorni. Caso strano, ma è così. Stavo giusto scrivendo un complicato box di biologia, di quelli in cui devi controllare tre volte ogni informazione, quando è arrivato l’ultimo stimolo.
Ho alzato lo sguardo distrattamente. Poi ho deciso che la distrazione non può continuare. E ho deciso di esprimermi non come prevede il codice di condotta dell’ufficio, ma quello di una persona che riceve l’ennesima ferita mortale. E non mi sembra nè affascinante nè utile neppure il concetto della risata che seppellisce: in questo momento avrei tutti i diritti di ridere dell’assurdità che ho appena sentito, ma non mi sembra questa la risposta giusta.
Ora cerco di analizzare in modo razionale la situazione. Elemento uno: la domanda su part time e tempo pieno. Non mi sembra completamente scollegata dall’ Elemento due, la comunicazione che siamo in esubero. Elemento tre, la mia richiesta lecita: dunque cosa devo fare? (parte dal presupposto che se viene data una informazione, la si deve anche utilizzare in qualche modo). Elemento quattro, la risposta: insomma è inutile che tu te la prenda tanto. Se vai avanti così non ti dico più niente.
Magari!
Era davvero inutile questa conversazione? Si trattava di un passatempo per ingannare l’interminabile tempo in ufficio? Non credo. La sensazione di “essere di troppo” non può essere provocata gratuitamente. Non può scivolare. Soprattutto se in quel momento stai lavorando intensamente, Da persone mediamente intelligenti verrebbe da dire: evidentemente voleva suggerire qualcosa. Ma troppe cose non tornano. Tutto accade in un momento in cui è stato appena assegnato un lavoro che tra poco diventerà molto importante per la rivista per cui lavori, e ti viene chiesto dell’altro. In più, volendo, verrebbe da allargare lo stretto campo visivo, analizzando la situazione più generale. Il mercato del lavoro, in questo momento, non consente ai lavoratori a tempo pieno di affrancarsi licenziandosi sui due piedi da un posto in cui “sei di troppo”. Questo lo sanno tutti. Loro e noi. Inoltre. Si è mai visto qualcuno che spontaneamente si licenzia perché sente di dover ottemperare a un obbligo morale richiesto dall’azienda? Dunque, o il datore di lavoro è un Utopista, oppure ha in mente altro. Cosa significa dunque “essere di troppo”? E che tipo di stimolo deve provocare?
Se fossimo capaci di reazioni dirette, semplici e lineari, una scena come questa si chiuderebbe con una risata.
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