Crescita – Diario di una giornata in redazione 16 ottobre 2008

La mail che piomba nel mio account di posta, sul computer di lavoro, è corta, semplice e non lascia spazio a dubbi: “a causa dei dati di mercato in nostro possesso siamo costretti a sospendere qualunque aumento o passaggio di livello, a partire da oggi stesso”.
Interessante è la parte finale: da oggi stesso. Significa forse che le richieste di aumento e/o promozione hanno un ritmo quotidiano, ed è dunque indispensabile fermarle in tempo reale? Io credevo che fossero frutto di lunghe contrattazioni. Evidentemente mi sbagliavo. Alle prime leggo e faccio finta di non aver ricevuto. La mail non riguarda certo me, che ho perso da tempo ogni possibilità di carriera e/o di aumento. Chi riguarda dunque? Non certo i colleghi attempati: quelli hanno interi arsenali di armi a loro disposizione per ricattare e costringere il riottoso editore comunque, nonostante le dichiarazioni, a mollare qualcosa prima o poi. Non riguarda neppure i giovani di belle speranze, che vengono attratti con stipendi da fame. Agli inizi te ne freghi di eventuali freghi, e pensi che potrai comunque, prima o poi, andare avanti.  Forse riguarda chi è a metà carriera, che ormai è sull’orlo della noia, si è indebitato con le rate per l’auto e ha la necessità di guadagnare sempre di più per alzare il suo livello di autostima, consumo, posizione, professionalità.
La dichiarazione arrivata via mail non lascia in ogni caso scampo: frena ogni tipo di crescita. Ed evidentemente, come giustamente sanno i colleghi attempati, è falsa. Si tratta di un semplice tentativo di condizionamento psicologico. Magari qualcuno ci casca e sta buono.
La crescita, si sa, è il motore dell’economia del capitale. Bloccarla significa agire da terroristi, e destabilizzare il sistema. Cosa direbbero i membri del consiglio di amministrazione, se al primo bilancio annuale i power point non mostrassero delle belle linee in salita? Salterebbero sulle sedie. Noi invece ci dobbiamo sprofondare ancora di più. E aggrappare il sedile con forza sperando di poter resistere ancora qualche mese alla dissolvenza.
A noi lavoratori non è dato di avere delle perplessità quando scopriamo che l’azienda per la quale lavoriamo (e che ha diversi milioni di euro di attivo in bilancio) ci comunica di non prevedere più dinamicità. Si suppone invece ben altra cosa: dobbiamo essere contenti perché abbiamo un lavoro e uno stipendio. Di questi tempi una vera rarità.
E’ vero. Le ricerche di altri lavori me ne hanno dato una prova evidente. L’abbassamento progressivo degli stipendi offerti anche. Ma con che entusiasmo possono lavorare le persone assunte presso un’azienda bloccata? Avranno la sensazione di essere a fine corsa. Dunque perché lavorare bene, o meglio? Proiettando la situazione sulla scena di un film ambientato nel futuro mi viene da immaginare gli impiegati raccolti in un ufficio di piccole dimensioni. Indossano tutti in uniforme grigia, con una riga rosso spento per vivacizzarla. Hanno sulla faccia un’espressione di media felicità, emettono suoni di medio volume e intonazione e soprattutto rispettano gli orari in modo matematico. E assomigliano in modo preoccupante ai lavoratori dei grandi magazzini di Berlino est, prima che cadesse il muro.
E’ questo dunque il risultato del liberismo economico, della promozione dell’impresa, della spinta all’incremento? Se l’attuale mercato del lavoro ci sta portando ad avere stipendi bassi,  scarso entusiasmo nel lavoro, il terrore del licenziamento, è solo perché non siamo riusciti a creare alternative.
Agli inizi di quest’era, che a seconda dei paesi e delle aree economiche può andare dal 1600 al 1900, il datore di lavoro aveva un problema: voleva un salariato affidabile, che non lo mollasse dopo qualche giorno di lavoro, che venisse puntuale ogni giorno, che finisse quello che gli veniva assegnato. Per questo, e non certo perché era una pasta d’uomo, decise che era conveniente  stabilire un contratto con lui. Il lavoratore poteva trovare più conveniente lavorare solo per qualche giorno alla settimana, poi coltivare l’orto per dare da mangiare ai figli, oppure fare qualche lavoro occasionale, magari pagato molto meglio. Il contratto di lavoro è nato per far capire al lavoratore che uno stipendio ogni mese val la pena di abbandonare l’orto, acquistare il pane al negozio invece che farlo in casa,  o se vogliamo trasferire tutto questo a più comprensibili tempi moderni, è più comodo andare al ristorante e farsi cucire l’orlo dei pantaloni dalla sarta.
Dunque. Se noi costruissimo una alternativa di sopravvivenza di base (dall’orto, a fare il pane, a cucire vestiti, a fabbricare computer e reti elettriche) forse potremmo ribaltare la prova di forza che stiamo subendo. All’offerta di uno stipendio da fame, che ci costringerebbe ad abbandonare l’economia autonoma e di scambio per non guadagnare nulla in più, potremmo rispondere che non ci interessa. All’idea di lavorare per una azienda che, nonostante sia ben lontana da crisi finanziarie, fa finta di aver bisogno di un aiuto da parte dei suoi lavoratori, potremmo rispondere che preferiamo aiutare la ben più interessante rete composta dalle nostre famiglie e dai nostri amici.
Ma tutto questo impone un enorme cambiamento, uno stato di transizione che richiede lentezza. Il  ribaltamento dei rapporti di lavoro/economia/ dritti sta invece avvenendo troppo velocemente. E noi non stiamo ancora costruendo le zattere di salvataggio. Il toboga ci porta giù veloci. Dobbiamo iniziare a prepararci.

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