"Nelle imprese che editano più testate, anche multimediali, possono essere costituite unità produttive
redazionali aventi la funzione di fornire contenuti informativi giornalistici, equiparate a testate nel
contesto delle previsioni di cui al comma successivo. Nel rispetto dei poteri dei direttori chiamati a
garantire l’autonomia delle testate l’opera del giornalista potrà essere utilizzata, su richiesta dei
singoli direttori interessati in ogni unità produttiva e per qualsiasi prodotto editoriale edito
dall’azienda, compresi quelli multimediali, nonché per le testate edite da imprese controllate dalla
stessa proprietà (art. 2359 C.C.)".
Questa frase è contenuta nella proposta di contratto che la Fnsi (il sindacato dei giornalisti)
presenterà alla Fieg (la federazione degli editori) nel corso della lunghissima trattativa per il
rinnovo del contratto giornalisti.
Non è una frase neutra, non riguarda una asettica organizzazione del lavoro. Travalica il senso della
produzione di contenuti e li equipara alla produzione di una merce. Forse perché l’informazione che
viene fatta oggi in Italia, non è altro che un veicolo pubblicitario.
Dunque proviamo a fare una simulazione. Io, che come è noto attualmente ho ruolo completamente
svuotato, vengo spedita all’unità produttiva redazione della mia casa editrice, che produce una decina
di testate che vanno dalla divulgazione scientifica, alla moda, alla tecnologia. A prima vista potrei
essere attratta da questa prospettiva: finalmente una sitazione dinamica. Posso immaginarmi che mi
troverò a scrivere, ma anche a realizzare un sito web, e di sicuro non sarò costretta a rimanere sempre
su un unico argomento. Ma dopo qualche mese potrei iniziare a vedere l’enorme muro che mi si sta
parando
davanti.
L’opera del giornalista potrà essere utilizzata per qualsiasi testata, dice la proposta di contratto.
In una interpretazione utopica e positiva, potremmo pensare che io, libera mente di un mondo
meraviglioso, scriverò una inchiesta sulle organizzazioni che aiutano i rom, senza necessariamente
pensare al contenitore che la accoglierà. I direttori delle testate dell’editore che mi ha pagato lo
stipendio mentre facevo le mie ricerche, faranno a gara per aggiudicarsi il mio articolo. E io sarò
costretta (questo è l’unico problema) a fornirlo a chi lo richiede, comprese le testate multimediali.
La realtà potrebbe però essere un’altra. Io sono seduta al tavolo e sto leggendo le rassegne stampa
delle notizie di attualità scientifica. Un lavoro che ho sempre fatto, visto che da molti anni faccio
il giornalista scientifico di mestiere. Ormai so dove andare a cercare, capisco il peso di una notizia
in funzione della fonte che la emette, so se vale la pena di parlarne o di tralasciarla, e soprattutto,
conoscendo il linguaggio e la materia, sono in grado di sgamare l’eventuale errore. per intenderci, a
me non potrebbe capitare di fare l’errore banale che i media italiani hanno fatto in questi giorni,
dichiarando che nel latte cinese c’era la melanina (il pigmento che ci regala l’abbronzatura) e non la
melamina (una sostanza sintetica e tossica che alza artificialmente la percentuale delle proteine di un
alimento). Arriva il direttore e mi chiede di scrivere un breve articolo sui teen ager, per il giornale
di moda. Trovo divertente la proposta e accetto. Mi viene dato un materiale. ma io non ho mai scritto
di questi argomenti e non so da dove proviene. Ho poco tempo e non voglio stare a fare storie. prendo
il materiale e scrivo. Un’altra collega, che si occupa sempre di moda, mi fa notare che, senza saperlo,
sto scrivendo una marchetta. Quell’articolo è stato chiesto a me e non a lei, per poter pubblicare una
notizia che serve da rinforzo a una pagina di pubblicità. Domani a lei chiederanno di scrivere di
scienza, e in particolare di medicina. Perché i lettori, leggendo quella notizia, abbiano voglia di
comperare l’ultimo analgesico da urlo (di felicità si intende).
E così quella che poteva sembrare un onesta soluzione, una proposta di riorganizzazione indispensabile
in un momento difficile, e per un settore in profonda trasformazione, appare come un modo per
modificare ancor più profondamente il concetto di informazione.
La catena di montaggio non è stata inventata oggi. Oggi abbiamo inventato la catena di montaggio per i
media. Perfetta, ben oliata, procederà a ritmo incalzante. permetterà l’alienazione del lavoratore fin
qui più riottoso ad essere espropriato del proprio prodotto, il lavoratore intellettuale. E come la
catena di montaggio fece ai primi del novecento, consegnerà totalmente nelle mani degli industriali la
produzione della merce, che potrà essere manipolata e gestita come si vuole inseguendo logiche
prettamente commerciali.
Se mi danno uno stipendio, si potrebbe pensare, perché non fare esattamente quello che mi chiedono.
Perché oltre che stomaci che devono mangiare ed esseri riproduttori che devono procreare, rivendichiamo
di essere anche persone, cervelli, cuori. Nella catena di montaggio l’operaio veniva assimilato alla
macchina, e diventava macchina a sua volta. E la storia del sindacato ha tracciato un lungo percorso di
lacrime e sangue su questo aspetto. Ma forse è vero che il tempo è passato. Il lavoratore del pensiero
è diverso può essere convinto con le buone, o con le cattive, in modo più facile e occulto.