Scafisti – Diario di una giornata in redazione 1-2 ottobre 2008

Il meccanismo è molto lineare: il lavoratore viene svuotato
delle sue capacità, viene depresso, viene azzerato. ma viene lasciato dove sta.
Evidenti minacce non ci sono. Serpeggiano, ma non si vedono. Dopo aver ricevuto
questo trattamento, il lavoratore è ancora più schiavo. Non è felice di
esserlo, ma lo è. E lo è per un motivo ben preciso: non avendo più fiducia
nelle sue capacità professionali, perché non ha più avuto occasione di metterle
in pratica, ha il terrore di perdere il posto di lavoro. Un terrore atavico,
radicato fin nel profondo dei profondi. Un terrore che impedisce di considerare
che quando si è assunti a tempo indeterminato, e l’azienda ha bilanci in
positivo, è praticamente impossibile essere licenziati.
Sorge spontanea la domanda: perché tutte le volte,
persino di delegati sindacali, invocano alla calma, di non esagerare con le
azioni, e sventolano lo spauracchio con leggerezza? Mah. Forse hanno comunque
una ridente carriera da tutelare. Forse gli mancano le basi per capire la situazione
in cui stanno operando. Forse sanno che la gente intorno a loro parla, ma poi
procede in tutt’altro modo. Io di solito agisco diversamente. Dico quello che
penso. Butto il sasso nello stagno. E il risultato è che la gente si aspetta
che faccia sempre io la puntigliosa, quella che si contrappone, quella che
esprime il disagio generale.

Questa volta ho cercato di stare zitta. L’amministratore
delegato ha organizzato due riunioni: una con i giornalisti, l’altra con i
dipendenti amministrativi, separatamente. Non sia mai che queste due categorie
di lavoro inizino a collaborare insieme.
In tutte due i casi però ha vestito gli stessi panni
stazzonati dell’uomo che non aveva altre scelte e, attenzione alle parole,
dell’uomo che non AVRA’ altre scelte. Per il bene comune si intende. Il
paragone con gli scafisti che buttano a mare la persona più pesante, per fare
in modo che la barca non affondi, lo lascia impermeabile. Lui soffre, noi non
capiamo.
Può darsi. Noi capiremmo anche. Noi avremmo, o meglio le
abbiamo avute, delle idee da proporre per alleviare le fatiche. Idee che
prendono in considerazione come è cambiata la società in questi anni, come sono
cambiati i media, ma anche come è cambiato il rapporto delle persone nei
riguardi della conoscenza.
Non servono. Nei dorati anni ottanta (e novanta), le riviste
vendevano solo perché, al pari di una maglietta di marca) fornivano uno status
al lettore. Il lettore ha dimostrato più volte di non aver bisogno dei brand.
Il lettore ha dimostrato più volte di non aver bisogno dei giornali. Gli
aspetti glamour dell’informazione si trovano dappertutto, dal catalogo trendy
al blog. Il lettore si evolve. Le riviste no. E deve continuare ad acquistare a
3-4-5 euro pezzi di carta da mettere sul tavolino. 
Inutile far finta di non capire: è colpa dei lavoratori se
le baracche mediatiche vanno male. Sono le tutele del lavoro la vera mela
marcia che non consente alle brillanti aziende di prendere spunto e partire
verso altri lidi. Sono gli eccessi di protagonismo di chi riflette su che
informazione sta trattando e per chi, il vero problema.
E il risultato è sotto agli occhi di tutti: capitani di
azienda che credevamo senza scrupoli, stanno mostrando altre facce, quelle di
uomini distrutti dal senso di responsabilità, imprigionati nel loro ruolo,
costretti ad agire solo perché i lavoratori non sono in grado di capire che è
necessario e indispensabile fare delle scelte per assicurare i profitti. Sono
in effetti molto diversi dai padroni delle ferriere. Quelli imponevano le loro
scelte. Questi invece le pretendono. Perché tutti, proprio tutti, hanno il
diritto di agire senza vincoli, senza cavilli, senza freni. Siamo nella
stagione della libertà no?

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